Il 20 agosto 1980 Reinhold Messner risale sull’Everest da solo senza ossigeno e questa diventa una data cardine nell’intera storia dell’Alpinismo. Reinhold Messner nel 1980 è già il “Re degli Ottomila”. Nel 1970 aveva scalato con il fratello Gunther il Nanga Parbat, in un spedizione che si è portata dietro 30 anni di polemiche e accuse finché il corpo del fratello non è stato ritrovato alla fine della discesa dal versante Diamir, dove Reinhold ha sempre detto che era stato travolto da una valanga. Ma quella del Nanga Parbat del 1970 era anche una spedizione “pesante”, con abbondante uso di corde e altri ausili secondo lo stile dell’epoca, mentre Messner già da tempo, ispirato da Hermann Buhl e Walter Bonatti, è un convinto sostenitore dello stile alpino, leggero, senza ausili, portatori, sherpa né ossigeno. Della stessa idea è Peter Habeler, e i due nel 1975 completano la prima ascesa senza ossigeno supplementare del Gasherbrum I. Nello stesso anno Reinhold Messner è l’alpinista di punta della spedizione sull’inviolata parete sud del Lhotse: capospedizione è Riccardo Cassin ma il maltempo impedisce la riuscita del progetto. E nel 1978 Messner e Habeler raggiungono la cima dell’Everest senza l’uso delle bombole di ossigeno, un’impresa considerata impossibile dall’intero mondo alpinistico tanto che Messner e Habeler vengono accusati di aver utilizzato delle mini-bombole di ossigeno.
Ecco perché quando il 20 agosto 1980 Reinhold Messner risale sull’Everest da solo senza ossigeno segna una data storica dell’alpinismo: sale dal versante nord, in solitaria, in pieno periodo monsonico, cade anche in un crepaccio, lotta con il proprio fisico ma soprattutto con le proprie capacità mentali in una prova mai affrontata prima, lungo una nuova variante del versante nord e senza campi di alta quota preallestiti. Ma, giunto al tripode sommitale, dimostra una volta per tutte che l’Everest si può conquistare con il suo stile leggero ed essenziale, in solitaria e senza ossigeno.
Riflettendo sui miei primi tentativi solitari sui giganti dell’Himalaya, sono in grado di rendermi conto di molte cose riguardo a me stesso e al mio rapporto con la scalata solitaria. All’Everest da solo, nel 1980, andai più che altro per mia soddisfazione personale. Nel 1973, quando per la prima volta partii solo per il Nanga Parbat, avevo le idee molto confuse. Ero partito per dimostrare al mondo e a me stesso che potevo scalare un 8000 da solo. Fisicamente allora ero forse più forte di quanto io lo fossi all’Everest ma psicologicamente, ero impreparato.
Nel 1978 invece quando ripartii di nuovo per scalare il Nanga Parbat da solo, le cose erano cambiate. Ero molto più in armonia con il mio corpo. Non ero partito per conquistare la montagna, né per fare un ritorno da eroe. Il mio scopo era riuscire a conoscere e a comprendere le paure del mondo, cioè le mie stesse paure. Volevo dimostrare a me stesso di essere un uomo nuovo. Ma allora non fu facile accettarmi e dovetti lottare a lungo. È per questo motivo che considero quella la mia scalata più importante: volevo dimostrare a me stesso che ero più forte dentro, che avrei saputo cavarmela anche senza l’appoggio di qualcuno, e ci riuscii. Durante quella scalata al Nanga sostenevo una battaglia continua contro il mio stesso corpo, l’obiettivo finale era che la forza di volontà dovesse assumere il pieno controllo del corpo.
Fino alla mia riuscita in solitaria sul Nanga Parbat, pensavo che scalare l’Everest da solo fosse impossibile. Poi invece, quando mi ritrovai quasi in cima all’Everest, mi sembrò che fosse stato addirittura più facile che al Nanga. Volevo vivere momento per momento il mio sogno, scalare l’Everest da solo e senza ossigeno. L’arrivo in cima alla montagna fu completamente diverso rispetto al Nanga, dove mi ero riuscito a sentire parte dell’intero Creato. In cima all’Everest salivo automaticamente, andando avanti guidato soltanto dall’istinto. Quando meno me l’aspettavo, vidi il tripode della cima, la prova certa della vetta. Il tripode è un oltraggio al luogo che dovrebbe essere lo spazio simbolo della solitudine. Ero solo, in cima all’Everest, con un treppiede in alluminio vicino a me. Non c’erano neanche parole per esprimere quello che sentivo, la tensione fisica aveva raggiunto i suoi limiti e in un istante simile la mente non è in grado di reagire. Ero semplicemente lìReinhold Messner
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