Qualche sera fa, cazzeggiando sui social, mi sono imbattuto in un gruppo di appassionati della vecchia Renault 4. Io, che ho 50+ anni, la R4 non solo l’ho avuta, ma ci sono anche andato in Marocco, nel 1992: Tangeri, Fes, Midelt, Al-Rashidiyya, Erfoud, Merzouga, Zagora, Boumalne Dades, Ouarzazate, le gole del Dades, Marrakech, Casablanca, Rabat. Avevo 21 anni, una cartina stradale approssimativa, dei traveler cheques in Franchi francesi e la guida Routard in tasca. Niente telefonino, niente Internet, niente carte di credito, App di prenotazione, Maps, WhatsApp per dire alla mamma e al papà che andava tutto bene, niente social per postare ogni piatto di couscous mangiato.
Le più belle esperienze della nostra vita
Perché racconto questa vacanza viaggio dei miei 20 anni che considero ancora oggi una delle più belle esperienze della mia vita? Per almeno 3 motivi.
L’Hippie trail dei Boomer
Il primo è che in quel gruppo di appassionati di Renault 4 c’erano molti 70enni o più di oggi che postavano foto e racconti di mitologici viaggi negli anni Settanta lungo il cosiddetto Hippie trail. L’Hippie trail era un viaggio, iconograficamente con il pulmino VW Kombi, che partiva dall’Europa, raggiungeva Istanbul dai Balcani, e poi si divideva tra la rotta settentrionale, che passava per Teheran, Herat, Kandahar, Kabul, Peshawar e Lahore verso l’India, il Nepal, e l’Indocina, oppure la rotta meridionale che passava attraverso Siria, Giordania, Iraq, Iran e Pakistan in direzione di Varanasi, Goa, Katmandu e Bangkok. Erano decine di migliaia i ventenni occidentali che intraprendevano l’Hippie trail stando via per mesi senza contatti con casa, ed è molto probabile che il nostro insospettabile vicino pensionato che porta a passeggio il cane a metà mattina, nei suoi 20 anni si sia molto divertito lungo la Jhochhen Tole, o Freak Street, di Katmandu.
Sognando il Marocco
Il secondo motivo è che un paio di giorni dopo aver letto questi racconti sui social, ero sul mio treno da pendolare, e dietro di me avevo un gruppo di 4 ragazzi e ragazze sui ventanni che parlando di vacanze dicevano come il loro “sogno” fosse andare in Marocco e come “addirittura” ci fosse un’agenzia che ti porta fino alle Gorges du Dadès. Siccome nessuno dei 4 ha fatto accenno a difficoltà economiche, mi hanno colpito i termini “sogno” e “addirittura” rispetto a un’esperienza che io feci 30 anni fa con uno zaino buttato nel baule di una Renault 4 e che oggi puoi fare prenotando volo, hotel e guida direttamente dallo smartphone in 5 minuti.
Juglot dove?
Il terzo motivo è che durante le chiacchiere da pausa pranzo in ufficio, un collega nei suoi vent’anni mi ha chiesto dove andrei oggi se potessi partire verso qualunque destinazione. Confesso che ho avuto più di un momento di esitazione prima di dire Juglot, una città del Gilgit-Baltistan, in Pakistan, dove si incontrano tre delle più grandi catene montuose – il Karakorum, l’Himalaya e l’Hindu Kush – e che è attraversata dalla Karakorum Highway che collega la Cina al Pakistan sui percorsi dell’antica via della seta.
Il mondo in mano
Ora basta digitare Juglot o Jaglot su un motore di ricerca che compaiono foto, video, mappe, recensioni di Tripadvisor, cerca hotel di Booking, profili social e annunci sponsorizzati di agenzie di viaggi. Un’esperienza ormai talmente comune e pervasiva che tendiamo a dimenticare come fosse inimmaginabile almeno fino al 2007, anno del lancio del primo iPhone.
Detto in breve: i Boomer partivano col pulmino Volkswagen avendo forse sentito parlare di luoghi remoti e non sapendo quasi dove sarebbero andati a finire; la Gen X partiva sulla suggestione di qualche libro o film, come Marrakech Express nel mio caso, e qualche informazione scritta su guide, libri e mappe; la Gen Z parte sapendo già tutto, avendo già tutto in mano, nel proprio smartphone, e potendo raccontare tutto in diretta mentre accade.
Dall’Overlanding al bisogno di novità
Detto con i termini scientifici di chi si occupa di ricerche sul turismo: siamo passati dall’overlanding travel, inteso come forma di viaggio avventuroso a lungo termine e autosufficiente in cui il viaggio è percepito come più importante della destinazione e in cui gli asset di valore sono la vita semplice, la libertà, lo sviluppo di sé e le relazioni positive, al bisogno di novità dei turisti inteso come brivido, cambiamento dalla routine, alleviamento della noia e sorpresa da condividere in real time sui social network.
La natura è l’ultimo spazio di avventura che ci è rimasto
In tutto ciò è scomparsa l’essenza del viaggio, che è l’avventura. Avventura deriva dal latino adventura, letteralmente «ciò che accadrà», e per definizione del vocabolario Treccani significa “un avvenimento singolare, inaspettato e straordinario, un’impresa rischiosa ma attraente e piena di fascino per ciò che vi è in essa d’ignoto o d’inaspettato, e per estensione una prova o esperienza il cui esito è incerto o casuale“.
Dov’è l’avventura nel raggiungere un luogo senza possibilità di sbagliare strada, sapendo esattamente quanto ci metteremo, avendolo già visto in decine se non centinaia di video e immagini, e avendo già scelto esattamente su quale letto dormire e quali cibi mangiare? Dov’è l’avventura se manca l’incertezza? Dov’è l’avventura se possiamo pianificare tutto e abbiamo sempre la soluzione a portata di mano?
In un’intervista che ci ha concesso Marko Prezelj, alpinista sloveno due volte vincitore del Piolet d’or, questo paladino dell’alpinismo puro e dello stile alpino ci ha detto che “la possibilità di fallire è parte delle esperienze. La possibilità di fallire e dover rinunciare a qualcosa rende l’incertezza ancora più affascinante e dà più sapore a ogni esperienza.”
Oggi si definisce adventure tourism come quell’attività all’aperto in cui ci si confronta con la natura per sperimentare il rischio oppure per acquisire conoscenze o intuizioni. Esperienze, conoscenze, intuizioni: l’ultimo spazio di avventura che ci è rimasto è la natura. Sì, ne abbiamo già parlato, le App di navigazione outdoor stanno generando un nuovo effetto Lonely Planet o RyanAir sui percorsi outdoor con conseguenti effetti di gentrificazione: ci stiamo tutti intruppando sugli stessi sentieri, in fila a pedalare, camminare e arrampicare convinti di vivere esperienze autentiche e invece indotti a pensare che non sia più lecito, accettabile o possibile perdersi, sbagliare, tornare indietro o rinunciare per riprovare.
Perdersi è un’esperienza sempre più rara. Anzi, ormai perdersi è qualcosa che non vogliamo più fare, vogliamo che il sentiero sia perfettamente segnato, e se non lo è vogliamo che sia il navigatore a dirci dove andare. E invece, come abbiamo scritto nel nostro Elogio del perdersi, perdersi è un momento di svolta, un momento di crescita in cui uscire dalla propria zona di comfort sia fisicamente che psicologicamente.
E non c’è bisogno di andare in zone remote e inesplorate, dall’Amazzonia al Deserto del Gobi, dal Sahara alla Groenlandia, per vivere questo senso di avventura profondo. Ce lo ha insegnato Alastair Humphreys, uno dei più grandi avventurieri e viaggiatori moderni che con il suo libro Microadventures: Local Discoveries for Great Escapes ha letteralmente inventato un mondo nuovo, quello delle micro avventure. Il bosco dietro casa, un lago di montagna, una baia raggiungibile solo a nuoto, un itinerario in neve fresca, quel sentiero inforcato con la bicicletta, un po’ di sano ravanage: ogni volta che ci immergiamo in un (piccolo) mondo che non abbiamo potuto pianificare, prevedere, organizzare, ci stiamo ritagliando un nuovo piccolo spazio di avventura e un nuovo grande orizzonte di crescita. Perché come diceva Tiziano Terzani, troverai la tua strada se prima avrai avuto il coraggio di perderti.
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