Siamo qui riuniti oggi per celebrare la rinascita del cappellino da ciclista. Un’icona del mondo dei pedali, per decenni un oggetto feticcio che sembrava destinato all’oblio con l’ascesa dei caschi protettivi e che invece, come la minigonna e i pantaloni a zampa, è tornato prepotentemente di moda.
Con il casquette, come lo chiamano i francesi, ci si potrebbe scrivere la storia del ciclismo. I ciclisti hanno da sempre sentito l’esigenza di coprirsi il capo. James Moore, il primo ciclista accreditato come vincitore di una gara ciclistica nel 1968 a St. Cloud, Parigi, indossava un berretto, e così appare da tutte le foto dei pionieri delle gare ciclistiche a fine Ottocento. Erano berretti più che cappellini, normalmente di lana, e coprirsi la testa, insieme all’abbronzatura parziale di braccia e gambe e ai pantaloni con le bretelle, sono l’iconografia della storia del ciclismo.
Fino alla Prima Guerra Mondiale prevalsero i berretti flosci di stoffa ma dagli anni Venti e con l’epopea gloriosa delle prime vere squadre ciclistiche “professionistiche” comparvero anche i cappellini con visiera. L’esigenza era presto spiegata e soddisfatta: coprire gli occhi dal sole e dalla pioggia, riparare il capo dalle intemperie, assorbire il sudore. Basta guardare le foto di quell’epoca per capire che quello tra ciclista e cappellino era un binomio inscindibile.
Con la fine della Seconda Guerra Mondiale e il boom del ciclismo degli anni Cinquanta comparvero anche gli sponsor sulle maglie e l’abbinamento di colori, nomi e simboli sul cappellino apparve come la cosa più naturale del mondo. Nel 1955 al Tour de France venne introdotto il cappellino giallo, di cotone con visiera, che identificava nel peloton la squadra leader della corsa. Un’usanza scomparsa solo negli anni Novanta e soppiantata dai primi anni Duemila dalla possibilità di colorare di giallo il casco, obbligatorio per i professionisti in gara dal 2003.
L’epoca d’oro del cappellino da ciclista fu quella, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, quando le ammiraglie li lanciavano come omaggi durante le corse e riuscire a prenderne uno era motivo di orgoglio e vanto. Se non potevi permetterti una bicicletta Campagnolo o Bianchi, almeno potevi avere il cappellino.
Poi i tempi son cambiati, non c’era più molto da regalare, era nata una nuova sensibilità sui temi della sicurezza e con essa erano comparsi i primi caschi moderni. E così anche il cappellino da ciclista è scomparso dalle strade. Da oggetto feticcio a vecchio arnese in pochi anni. E chi lo indossava era cringe.
Poi il ciclismo è cambiato, è diventato fenomeno di costume e in bicicletta sono montate anche le sottoculture metropolitane, oltre che attempati uomini di mezza età che sfidano lo scorrere del tempo. La bicicletta è diventata di moda anche tra gli hipster di East London che andavano a bere una birra a Hoxton, rigorosamente con un cappellino da ciclista in testa. E così, pian piano, i cappellini in cotone con visiera son riemersi come un fiume carsico.
Oggi non c’è brand ciclistico, itinerario cicloturistico, bike-bar o ciclofficina che non abbia il suo cappellino distintivo. E comprarlo è quasi automatico, come si faceva una volta con la torre di Pisa che cambiava colore al variare del meteo o la t-shirt dell’Hard Rock Cafè. Il cappellino dell’Eroica è diventato come il piatto del buon ricordo che compravi e portavi a casa per mostrare di aver mangiato nel tal ristorante. Il cappellino ora non dice più, semplicemente, “sono un ciclista” ma è diventato un segno tribale di appartenenza. Anche se tutti continuiamo a dirci che serve solo a riparare la testa e proteggere il casco dal sudore delle nostre fatiche.
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