All’inizio del Novecento c’erano oltre 100mila tigri, ora ne sono rimaste appena 3000; in 40 anni la popolazione di leoni del Ghana si è ridotta del 90%; le porzioni di foresta a disposizione degli elefanti in Africa occidentale è il 7% dello spazio disponibile un secolo fa. E ancora: mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci si sono ridotti del 52%, mentre le specie di acqua dolce – fiumi e laghi – sarebbero crollate del 76%.
Numeri impressionanti, che emergono dall’aggiornamento del Living Planet Index appena pubblicato dalla London Zoological Society e che segnalano una situazione ben più grave di quella prospettata nell’ultima edizione del LPI, quella del 2008.
È chiaro che un censimento numerico della fauna selvatica è un’operazione statistica per la quale occorre valutare un numero enorme di variabili. Ed è noto come il nuovo metodo statistico adottato dalla ZSL punti l’occhio in particolare sulle specie più a rischio: in precedenza il Living Planet Index era calcolato in base al declino medio di tutte le specie considerate dal 1970 a oggi (più di 10mila specie di vertebrati); il nuovo metodo di calcolo assegna invece un peso maggiore alle specie più numerose in una determinata area geografica, e così importanza diversa è assegnata a specie diverse in diverse regioni geografiche o in diversi habitat.
Applicando questo nuovo metodo di calcolo ai dati raccolti nel 2008, gli scienziati della ZSL si sono resi conto che il numero totale di animali selvatici sul pianeta si era ridotto del 52% anziché del 30%.
Secondo il report della London Zoological Society e le statistiche prodotte dal WWF, la causa sarebbe da ricercare in particolare nel consumo di risorse naturali attuato dall’uomo: staremmo tagliando più piante di quante ne ricrescano; staremmo mangiando più pesci di quanti gli oceani siano in grado di produrre; staremmo utilizzando l’acqua di fiumi e laghi più di quanto le pioggia non siano in grado di rifornirne; staremmo emettendo più CO2 di quanta le foreste e gli oceani siano in grado di assorbirne.
Il report è stato pubblicato dopo il Climate Summit tenutosi alle Nazioni Unite a New York, e sottolinea come ci sia ancora la possibilità di invertire la rotta con politiche di difesa della fauna selvatica come gli accordi da firmare nel 2015 sul Sustainable Development Goals, da raggiungere entro il 2030, e sull’UN Framework Convention on Climate Change.
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