GranFondo Gimondi 2018: si parte in due e si arriva da soli, in mezzo ad altri 4.000

Cronaca di una domenica mattina trascorsa a pedalare alla Granfondo Felice Gimondi, con tutti i suoi pregi e nella bellezza di un paesaggio bergamasco che ti sorprende ogni volta.

Quando arrivo nei pressi della partenza incrocio volti noti e amichevoli, un ciao di qua, un heila di là. Qualche stretta di mano, un paio di pacche sulla spalla, un braccio spunta dal centro della folla, e ricambio il silenzioso saluto. Insomma, partire alla Gimondi è un po’ come entrare al bar, quello dove hai gli amici, i conoscenti: ti muovi con sicurezza perché l’hai già fatta altre volte, insomma la gara di casa. Entro in griglia dove mi aspetta il Jeepy, il mio socio sportivo, e ovviamente parte il solito selfie, che poi giriamo sulla chat del gruppo whatsapp, e sistemiamo le ultime cose. Il gruppo rumoreggia e qualcuno lì avanti sembra scalciare come un puledro in un recinto, e alle sette puntuali scatta la 22esima edizione della Granfondo Felice Gimondi. Tra i 4.000 iscritti ci sono anch’io, che pedalo in mezzo a veri avvoltoi partiti in griglie alle mie spalle e che ora hanno voglia di vendicarsi per una ingiusta (per loro) assegnazione di pettorale.

Nel 1996, quando è nata, la Gimondi era esattamente come oggi: tre percorsi, 90, 128 e 162 chilometri, ma soprattutto un sacco di belle salite. Squadra che vince non si cambia. Le ascese classiche della bergamasca ci sono quasi tutte: il Colle Gallo da Gaverina e la Nembro Selvino, la vera palestra benchmark per ogni ciclista orobico. E poi la Val Taleggio, la migliore di tutte con quel suo orrido così bello che chiamarlo orrido lo trovo una contraddizione in termini.

Fino alla Tribulina il serpentone dei quattromila è senza soluzione di continuità, un blocco unico che però in discesa si apre in diversi spezzoni, e qui è fondamentale non distrarsi perché se perdi la ruota di quello davanti, poi non la ribecchi più. E infatti il Jeepy lo perdo sulle rampe del Cole dei Paste, e non sono valsi gli accordi preventivi tipo “ci vediamo in cima alle salite” per ritrovarci e pedalare insieme. Lo rivedrò all’arrivo, un po’ alterato ma soprattutto stanco.

Arrivato a Casazza, il gruppo gira a sinistra per l’attacco al Colle Gallo. Le mie gambe soffrono della corsa a piedi che ho fatto venerdì sera sotto la pioggia: tutto il giorno in ufficio, tornato a casa avevo voglia di sfogarmi e nonostante il cielo grigio prossimo all’acquazzone, sono uscito per una corsa di una decina di chilometri. Ecco, una cosa da non fare è correre a 48 ore da una granfondo, soprattutto se non corri da settimane. Ma tant’è, adesso sono qua e mi smazzo la salita di Gaverina, non senza rinunciare alla “consueta” spinta alla Norma, la primogenita di Felice Gimondi, che nella vita fa l’avvocato e anche lei non ha mica tanto tempo per allenarsi. Raggiunta la cima del colle Gallo, le speranze di trovare il mio compagno di vita sportiva sono appese al filo telefonico che manda reciproche telefonate, ma che per situazioni avverse, ci impedisce di entrare in contatto. La prima cima è fatta, e allora giù in solitaria discesa.

GRF Gimondi 2018 - Brena 2 (credit Foto Quaranta)

Nella tappa di trasferimento a Nembro mi ritrovo in un gruppo di inglesi, lo capisco perché parlano inglese e hanno la maglietta con scritto London. Una di loro accenna a un sorriso, io vorrei avviare un dialogo, ma la strada impone concentrazione, ed è meglio evitare di arrotarsi con degli inglesi che indossano una maglietta di Londra. Non sono gli unici stranieri, anzi, ce ne sono un sacco e lo capisci da marche di bici mai viste in Italia (…Vlandeen o qualcosa del genere) e da divise in lingue oltre confine: 4.032 iscritti (grande risultato aver abbattuto il muro dei quattro mila al via, nonostante una serie di concomitanze con altre gare) provenienti da 25 nazioni di cinque continenti, segno che la Gimondi è un must have nel curriculum di ogni amatore globalizzato.

Si gira a destra e inizia il Selvino. Dalle case escono papà e mamme tirate a lucido che tengono per mano piccole creature con tuniche bianche: è tempo di prime comunioni. A metà salita incontro il Paolo che mi dice di conoscere a memoria ogni metro della salita: “Quando lavoravo qua, facevamo la pausa pranzo in bici sul Selvino”, e questo spiega molto lo forma tonica della sua gamba. Più avanti trovo il Bort che mi racconta la sua settimana in un velodromo olandese a far test di aerodinamicità: “Ma sai che anche un guantino può fare la differenza” mi dice. Non ho fiato per rispondere, non posso argomentare, quindi mi attacco al treno del Piergiorgio, vecchio compagno di un triathlon che fu, che mi dice che è in preparazione per un Ironman in estate: “Non molli mai neanche tu” e mi lascia lì.

Al ristoro in cima al Selvino mi innervosisco per l’ennesima volta: non sopporto quelli che con la bicicletta vanno al tavolo ricco di cioccolato, biscotti, banane, sali e acqua senza togliere il culo dalla sella, e finendo con la loro ruota sui tuoi piedi e la catena sporca di olio che timbra i polpacci di una decina di cicloamatori. Io torno alla bici parcheggiata poco più in là, e rimonto sulla Colnago facendomi passare l’incazzatura. E mi ributto in discesa lasciando la Val Seriana per la Val Brembana: in fondo mi aspetta il primo bivio; a sinistra il percorso corto, a destra per il medio e il lungo. Non sono mancino, e volgo a tribordo. Nel transito per San Pellegrino avrei voglia di fermarmi dal Bigio per il miglior caffè del comprensorio ma fortunatamente mi trovo in un bel gruppetto e proseguo a menare. Quando entro nella Val Taleggio la brezza imporrebbe uno smanicato, ma si resiste alla frescura, tenendo la testa alta ad ammirare questo canyon grigio e granitico.

Su un terrazzo un lenzuolo bianco esplicita il pensiero degli abitanti della casa: “La Val Taleggio dice NO alla Gimondi”. Molto bene!! Quando si dice fare squadra nella promozione del territorio. Noi bergamaschi non eccelliamo in questa e anche in tante altre attività: il turismo non è nelle corde di chi preferisce la cazzuola alla reception di un albergo.

Sfioriamo il ponte dei Senesi, che se non ricordo male era di una famiglia scappata dalla Toscana ai tempi della guerra tra Guelfi e Ghibellini. Qui avevano imposto un dazio al passaggio delle merci: una carovana di muli partiva e percorreva questa via per portare a Bergamo i propri prodotti, come carbone, legna e formaggi, lane e ritornare a Taleggio con altri approvvigionamenti.

Sul Garmin ho scaricato la traccia della granfondo che ho fatto alcuni fa, così vedo tutta l’altimetria, e soprattutto la salita che mi aspetta per raggiungere la cima. Ristoro, appoggio la bici al muro e di nuovo mi girano a elica per ‘sti ciclisti campioni mondiali del mondo che non hanno tempo di scendere dalla bici. Riprendo a pedalare e vedo gli effetti del passaggio della corsa, con decine di cartacce abbandonate per terra: le bustine rosse del gel sono inconfondibili, e forse capisco anche quel NO appeso a inizio paese. Ma la cattiva eduzione è qualcosa di democraticamente distribuito in tutte le classi della popolazione, e i ciclisti non ne sono immuni.

La discesa verso Bergamo è il regalo di una splendida e solitaria giornata in mezzo a quattromila biciclette, e all’idea che fare la Gimondi, è un po’ come essere Felice. Oltre la transenna il Jeepy, ma questa è un’altra storia.

Photocredit: Marco Quaranta / Matteo Zanga

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