I protocolli approvati dal CTS sono una pagliacciata. Non c’è altro termine per definire questi documenti pieni di indicazioni, norme, regole, prescrizioni, divieti e restrizioni che, dalla sera alla mattina, diventano carta straccia. Quello del protocollo per la riapertura degli impianti sciistici è solo l’ultimo caso che non deve però far dimenticare gli altri, uguali e con identica sorte: il protocollo per la ripresa dello sport giovanile, quello per la riapertura delle palestre e centri fitness, quello per la ripresa della scuola, per l’apertura dei ristoranti e molti altri ancora. Mesi di discussioni, studi, ragionamenti, analisi, negoziazioni, nonché investimenti economici per adeguamenti vari e acquisto di materiale che non sono serviti a nulla.
Ora, che la stagione sciistica in Italia cominci a inizio dicembre è scolpito nella pietra del calendario: ogni anno in occasione dell’Immacolata. Così come qualunque operatore della montagna può dire che aprire una stazione sciistica e mettere in funzione gli impianti di risalita non è come fare una lavatrice: ci sono settimane se non mesi di lavoro precedenti al momento in cui il primo sciatore sale in quota e scende con gli sci ai piedi. Mesi di lavoro e di investimenti economici, per preparare le piste, revisionare e manutenere gli impianti, garantire la sicurezza. Migliaia di lavoratori e milioni di euro in ballo.
Del protocollo sulla riapertura degli impianti sciistici si è cominciato a parlare già in estate, e le prime proposte da parte della Conferenza delle Regioni risalgono alle prime settimane dell’autunno. La tempistica è importante, perché in questo nuovo niet allo sci c’entrano anche le zone colorate. Ma quando è stata proposta e approvata l’ultima versione del protocollo per la riapertura delle piste da sci in Italia le zone gialle, arancioni e rosse già erano state istituite da almeno un paio di mesi.
Cioè, nel momento in cui il CTS ha approvato il protocollo per lo sci era ben chiaro sia il contesto in cui sarebbe stato applicato – le stazioni e gli impianti sciistici, le relative località, e le strutture tipiche che si trovano in montagna, come i rifugi – che i criteri per stabilire se la situazione pandemica avrebbe consentito di andare a sciare oppure no. Ciò che il CTS ha approvato, con largo anticipo verso la prevista data del 15 febbraio, era molto chiaro e molto semplice: sì alla riapertura di impianti e piste da sci, solo in zona gialla, solo nella misura del 30% della portata oraria complessiva degli impianti, con alcuni vincoli relativi all’uso della mascherina e al distanziamento.
Poi, a poche ore dalla messa in funzione degli impianti e dell’arrivo dei primi turisti, il nuovo niet. Niente da fare, non si apre. Ora, in uno stato di diritto una cosa è imprescindibile: la certezza delle regole. Faccio una cosa perché è consentita, non la faccio se è vietata. E non c’entra nulla la “crociata contro gli scienziati gufi” perché o i protocolli hanno davvero un carattere tecnico scientifico, e allora all’avverarsi di determinate condizioni normano ciò che possiamo o non possiamo fare (in zona gialla si aprono le stazioni sciistiche, in zona arancione e rossa no) oppure non hanno nulla di tecnico e scientifico e le decisioni passano da fattori che gli operatori economici non sono in grado di valutare e verificare. E a questo punto “ha da passà ‘a nuttata“, teniamo tutto chiuso e stiamo tutti fermi finché questa epidemia non sarà finita (ma qualcuno studi seri criteri per i ristori, perché in un’economia di sistema non basta avere la saracinesca alzata o abbassata per subire o meno le conseguenze economiche dei lockdown).
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