Il gomito del tennista, o epicondilite, è un fastidio molto diffuso non solo tra chi pratica sport da racchetta. Ma è indubbio che tra chi gioca a tennis o paddle ed è tornato finalmente a giocare dopo mesi di stop da lockdown può essere più frequente. La causa del gomito del tennista è sempre un sovraccarico tendineo, sia nel caso degli sportivi che in quello delle malattie professionali, ma dei sintomi del gomito del tennis, su come curarlo e quando preoccuparsi ce ne parla il dottor Roberto Leo, responsabile della Chirurgia di gomito e spalla dell’ASST Gaetano Pini-CTO e per anni nel team del CONI.
Dott. Leo, quando si parla di gomito del tennista a cosa si fa riferimento?
Con questa espressione si fa riferimento a una infiammazione dolorosa dei tendini che collegano i muscoli dell’avambraccio alla parte esterna del gomito, il cui nome scientifico è epicondilite. Viene comunemente detta ‘gomito del tennista’ perché la natura di questa infiammazione è da ricercarsi nel carico funzionale costante e dell’usura dei tendini dovuto al ripetersi di gesti ad alto impatto meccanico, come avviene per i tennisti quando devono colpire la palla. Il gesto atletico impone ai muscoli una contrazione esplosiva e ai tendini una conseguente trazione. Ma questa patologia può colpire anche altri soggetti come alcune categorie professionali che sottopongono i tendini a sovraccarico, come gli operai delle catene di montaggio, gli operatori edili, ecc. provocando lo scompaginamento della struttura delle fibre e un processo di infiammazione cronico: è come se il tendine si fosse rotto, ma non lo è.
Quando il paziente che prova dolore al gomito deve preoccuparsi?
Quando percepisce il fastidio al gomito anche a freddo. Sarà poi la visita di uno specialista ortopedico o fisiatra a stabilire se si tratta di questa patologia e a valutarne il grado di gravità.
Come può intervenire lo specialista?
L’ortopedico può sottoporre innanzitutto il paziente a una terapia che serva a ridurre i livelli di infiammazione. È utile sottoporsi sin da subito alla crioterapia, ossia banalmente raccomandando l’uso del ghiaccio localmente. Possono poi essere prescritte anche terapie fisiche come le onde d’urto focali, la Tecarterapia che sfrutta un campo magnetico, la laser terapia o la fisioterapia intesa come adeguata terapia manuale di supporto eseguita da un terapista della riabilitazione. A proposito di fisioterapia, è importante che gli sportivi a livello agonistico, come avviene ai Giochi olimpici, siano costantemente seguiti da un terapista della riabilitazione per tenere l’infiammazione sotto la soglia ed evitare che il tendine si scompagini.
Quando invece è necessario l’intervento chirurgico e come si svolge?
L’intervento deve essere la cosiddetta “ultima spiaggia”, quando tutte le possibili terapie hanno fallito. Il primo livello di intervento avviene mediante l’infiltrazione di fattori di crescita, derivati dal sangue o dal grasso sottocutaneo. Essi stimolano le cellule tendinee in senso riparativo inducendo in questo modo un processo naturale, perché il nostro corpo è spesso in grado di ‘ripararsi’ autonomamente, come avviene con i tagli sulla cute, per esempio. Il secondo livello di intervento consiste nell’intervento chirurgico vero e proprio nel quale si “rivitalizza” la zona dell’osso sul quale i tendini sofferenti si agganciano; in tal modo il micro sanguinamento locale che si produce, stimola al massimo livello i processi di riparazione spontanea dei tendini.
Dopo quanto tempo dall’intervento il paziente può tornare alle proprie attività?
Molto dipende dall’età del paziente e dalle sue condizioni di salute generali. Più il soggetto è giovane, minore sarà il tempo di ripresa. Serve comunque almeno un mese di riposo per tornare alle attività della vita quotidiana e dai tre ai sei mesi di stop per tornare a fare sport.
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