Alla percezione di spazio e tempo in chi fa sport ci ho pensato qualche sera fa. Era venerdì sera, avevo chiuso il computer alle 19:20, stremato da una settimana intensa di lavoro. Non mi restavano che le briciole di quello che potevo dare. Proprio per questo avevo voglia e bisogno di uscire a fare qualcosa. Ho fatto due rapidi calcoli: in 10′ potevo cambiarmi, alle 21:00 avrebbe cominciato a fare buio, avevo 1 ora e mezza più o meno. Potevo correre una quindicina di km oppure prendere la bici e farne una trentina abbondanti. Mentre pensavo questo avevo già tutto chiaro: il giro che potevo fare di corsa, quello che potevo fare con la MTB e anche quello che potevo fare se avessi preso la gravel. Non certo prestazioni di cui vantarmi, ma non è questo il punto.
Il punto è che mi sono stupito del fatto che avessi perfettamente presente il territorio in cui vivo, le mie “prestazioni” (o per meglio dire le mie capacità di correre e pedalare) e quello che potevo fare nel tempo che mi era dato. Ho deciso di uscire a correre, perché nella mia testa c’era la convinzione che una quindicina di km di corsa mi avrebbero stancato di più di quella stanchezza buona ed endorfinica di cui hai bisogno quando sei svuotato dalle fatiche cognitive del lavoro. E mentre correvo mi è tornata alla mente dai tempi del liceo una frase di Kant, il filosofo, che dovrebbe fare più o meno così: “Spazio e tempo sono due fonti del conoscere. Essi cioè sono tutti e due forme pure di tutte le intuizioni possibili“.
Tornato a casa ho fatto delle ricerche online e la frase dovrebbe essere nella Critica della Ragion Pura dove il filosofo teorizza che lo spazio sia forma del senso esterno e il tempo forma del senso interno. Secondo Kant spazio e tempo hanno una natura intuitiva e non derivano dall’esperienza, ma io su questo non sono d’accordo.
Ho fatto un piccolo esperimento. Ho chiesto a delle persone che vivono vicino a me secondo loro quanto distavano da dove viviamo la scuola, il comune, la farmacia e il supermercato e ne ho ottenute le risposte più disparate. Sia in termini di distanza che in termini di tempo per andarci a piedi o in bicicletta. Poi ho chiesto la stessa cosa a vicini che come me escono a correre o vanno in bicicletta e avevano perfettamente idea di quanto è 1 km, quanti sono 5 e dove si può arrivare in mezzora tanto di corsa quanto in bicicletta.
Ho ripensato a quando 35 anni fa andavo a Liceo in bicicletta, da un Comune a un altro lungo una strada provinciale che passava in mezzo a dei campi agricoli. Eravamo tantissimi a farlo, uno sciame di biciclette al mattino presto, in ogni stagione. Oggi i campi agricoli non ci sono più, è un continuum di edifici, e c’è anche una ciclabile ma nessuno usa più la bicicletta per fare quel tragitto. E mi ha preso la curiosità di guardare su Maps quanti km sono: 8. Otto miseri km che pedalando tranquillamente puoi fare in massimo massimo 30′, probabilmente meno di quanto ci metti con l’autobus.
(Quasi) nessuno fa più 8 km in bici per andare a scuola alle superiori o anche al lavoro. (Quasi) nessuno fa anche solo 1 km a piedi per portare i figli a scuola alle elementari o andare a prendere il pane o in Comune per una pratica. E quando provi a dire “be’ ma si può andare a piedi” la risposta solitamente è “ma quanto ci vuole?“. Ci sono amici che si stupiscono del fatto che quando porto l’auto dal meccanico torno di corsa, e parliamo di 3 km. Come se, avendo smesso di usare il nostro corpo per coprire certe distanze avessimo perso la cognizione di spazio e tempo.
Allora sono andato a rivedermi su Youtube i video di certe competizioni di atletica in cui sono stati stabiliti dei record, su brevi medie e lunghe distanze, e mi sono sorpreso di una cosa: gli atleti quando fanno un record è come se intimamemente lo sapessero ancor prima di veder visualizzato il tempo. È una specie di feedback interno che nasce dalla conoscenza profonda della relazione spazio-temporale di quello che fanno.
La percezione di spazio e tempo è in effetti la base dell’apprendimento motorio in qualunque sport. Non solo in quelli misurati in tempo e distanza ma anche nei giochi sportivi, individuali e di squadra. Giocare a tennis presuppone la percezione di spazio e tempo tanto quanto giocare a calcio o a pallavolo: c’è un oggetto – la palla o pallina – che si sposta in uno spazio delimitato e c’è un preciso tempo di gioco che consente o non consente di intercettarlo, fare il punto o subire il punto. anche in questo caso basta guardare con attenzione per rendersi conto che un tennista sa con un po’ di anticipo quando l’avversario non riuscirà a respingere la pallina, un cestista sa con un po’ di anticipo quando la palla andrà a canestro, un calciatore sa in anticipo quando la palla andrà in porta. È un feedback interno dato dall’esperienza che consente di anticipare l’esito di quell’azione.
The Last Shot pic.twitter.com/93R2q9W8Xc
— NBA (@NBA) May 18, 2020
Chi ha visto “The Last Dance” ricorderà il racconto che Michael Jordan fa del “the last shot“, il tiro all’ultimo secondo che chiude la serie 1997-1998 contro Utah: MJ anche in un momento sportivamente drammatico e di grande tensione ha perfettamente coscienza del tempo che gli è dato per segnare quel canestro, e i suoi compagni hanno perfettamente coscienza dello spazio che gli serve per farlo, lasciandogli libera la fascia centrale del campo da dove tirare. MJ è MJ e noi al massimo siamo degli onesti tapascioni che non vogliono peccare di lesa maestà ma se c’è una cosa che lo sport ti può insegnare a ogni età forse è proprio la percezione di spazio e tempo.
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