Dici Pou e pensi ai due fratelli baschi dell’alpinismo, Iker ed Eneko, uno dei migliori team di arrampicata, alpinismo e avventura al mondo. Leggendo di loro e parlando con loro non capisci mai dove finisce l’uno e inizia l’altro, dove inizia il pensiero e dove finisce l’azione. Di fatto però sono da 30 anni al vertice dell’alpinismo mondiale, in un sodalizio in cui si intrecciano legami famigliari, ambizioni personali e riflessioni come team.
Iker ed Eneko Pou: l’alpinismo è una questione estetica
Li abbiamo incontrati di ritorno dal Karakorum in Pakistan, dove con Fay Manners hanno aperto una nuova via in stile alpino sulla Trango II (6237 m), in occasione del Cortina Outdoor Summer Camp organizzato da The North Face, di cui sono parte del team di atleti,
E questa è stata l’occasione per una chiacchierata sull’essenza dell’alpinismo, lo spirito dell’avventura, l’estetica della montagna.
Cominciamo da dove inizia la vostra storia di scoperta della montagna?
È iniziata con i nostri genitori, con loro facevano molta montagna, nostro padre aveva fatto le vie classiche, aveva anche arrampicato, così come nostra madre pur senza aver mai arrampicato. Da quando eravamo piccoli, dai 2 ai 3 anni, tutte le vacanze sono sempre state in montagna. E così nostro padre, mentre crescevamo, ci metteva alla prova, facevamo creste, salite semplici nei Pirenei, e piano piano abbiamo iniziato ad arrampicare.
Abbiamo iniziato giocando, poi arrampicare in senso stretto abbiamo cominciato intorno ai 15 – 17 anni, ma a quell’età avevamo già fatto decine di montagne di 3000 metri nei Pirenei.
Tieni anche conto che a quell’epoca non c’erano palestre, non c’erano libri e non c’era nulla per allenarsi. Andavamo in montagna solo nei fine settimana, e solo quando abbiamo avuto più di 20 anni è arrivata la prima palestra di roccia in città.
Quando avete capito che era proprio ciò che volevate fare nella vita?
Penso che non ci sia stato un momento specifico, ma è la motivazione che è cresciuta man mano. Voglio dire, avevamo 20 anni, e quando i nostri amici andavano alle feste a divertirsi, noi volevamo andare in montagna. E così senza accorgercene è arrivato un momento in cui abbiamo iniziato a vivere di montagna, a diventare professionisti, anche se non era quello che cercavamo.
Semplicemente passavamo tutto il giorno ad arrampicare, uscivamo a correre in montagna per allenarci fin da giovani, sognavamo gli alpinisti baschi che andavano sull’Himalaya, che salivano sulle grandi montagne di 8000 metri, che andavano sulla Torre sin Nombre nel macizo de los Urrieles, che andavano al Karakorum, nelle Ande. E semplicemente volevamo essere come loro.
Come siete passati dall’arrampicata all’alpinismo?
La nostra specialità fin da piccoli è la roccia, ma in realtà abbiamo sempre fatto alpinismo perché abbiamo sempre guardato a gente come Messner o Bonatti che avevano iniziato con la roccia e poi hanno scritto pagine memorabili dell’alpinismo. E così anche noi abbiamo voluto fare tutta la transizione e ripercorrere quei passi.
A questo proposito: quanto ha contato l’ispirazione data dagli alpinisti che vi hanno preceduto?
La storia della montagna è una stratificazione continua, generazione dopo generazione. Ed è solo grazie alle generazioni precedenti che oggi possiamo fare quello che facciamo, e magari farlo meglio. Pensa alla tradizione alpinistica importantissima delle Dolomiti, pensa alle cose incredibili che gli alpinisti già facevano negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, pensa a nomi come Riccardo Cassin, Achille Compagnoni, gli stessi Messner e Bonatti, pensa a Casimiro Ferrari e ai Ragni di Lecco…
E non è solo una questione di apprendimento tecnico, è anche una questione di ispirazione che questi alpinisti del passato ci possono dare ancora oggi. Voglio dire, stiamo parlando di salire sulla cima grande delle Tre Cime di Lavaredo, come ha fatto Emilio Comici nel 1933, delle prime ascensioni di Riccardo Cassi, di Bonatti sul Cervino, di qualcosa di incredibile che è per noi fonte di ispirazione per cercare di fare le cose bene, eticamente bene.
Pensate che rispetto ai grandi del passato ci siano delle differenze tecniche e fisiche?
Sicuramente sono cambiate molte cose, e sicuramente la differenza maggiore è nell’equipaggiamento, nell’attrezzatura che oggi abbiamo a disposizione. E anche la conoscenza delle montagne che possiamo avere oggi rispetto a quel tempo. Ma poi non credo che ci sia differenza tra le persone, tra chi scala oggi e chi scalava allora.
Certo, quando sono state salite per la prima volta le 14 vette degli Ottomila si trattava di spedizioni nazionali con una mentalità militare e che mettevano insieme i migliori alpinisti dell’epoca di ciascun Paese. Oggi su quelle montagne non ci sono necessariamente i migliori alpinisti del nostro tempo, oggi è più facile trovarli impegnati in attività molto specifiche sulle grandi montagne di 6000, 7000 metri a fare imprese tecnicamente molto difficili.
Se oggi delle montagne sappiamo molto di più di quanto sapevano i grandi alpinisti del passato, dove inizia l’avventura?
Qui possiamo parlare di 2 tipi di avventura. Una è l’avventura personale: una ferrata, un’escursione, un’arrampicata possono sempre essere un’avventura, la prima volta che la fai e stando dentro ai tuoi limiti. E questo è il bello della montagna, che puoi sempre avere un’esperienza avventurosa, a qualunque età, che tu sia più o meno esperto.
Poi bisogna capire cos’è veramente una grande avventura per un essere umano. Oggi ci sono migliaia di turisti che vanno in cima a montagne di Ottomila metri per la Via Normale, con supporto completo, ma questa non è la vera grande avventura e non ha nessuna importanza dal punto di vista alpinistico. Ce l’ha invece scalare montagne di 6000 o 7000 metri, tecnicamente difficili, su vie nuove e soprattutto in autonomia. Cioè essere abbastanza bravi da poter salire e scendere vivi in completa autonomia. E allora questa è vera avventura.
E allora l’ultima domanda è: in base a cosa decidete quali montagne scalare e quali avventura affrontare?
Potremmo risponderti come rispose George Mallory con “Perché sono lì”. In realtà è un mix di cose, dalla difficoltà tecnica al retaggio storico culturale ma anche, o soprattutto, per una questione estetica. Prendi l’ultimo progetto che abbiamo chiuso, 4 Elements (il progetto è iniziato nel 2017 con l’apertura di “Aupa 40” in Patagonia, poi “Yakumama” in Amazzonia, quindi “Leve Leve” sul vulcano Cao Grande, in Africa, e infine “Waa Shakir” al Trango II in Karakorum, Ndr): alcune scalate erano tecnicamente semplici, altre invece complicate, ma quello che cercavamo era l’estetica, un progetto che ci piacesse immaginare ed elementi che ci piacessero da scalare. Un alpinista, uno scalatore, è come un bambino: vuole scalare qualcosa di bello. La componente estetica è la più importante di tutte, ed è il motivo del fascino delle Dolomiti o del Cervino. Ed è quello che faremo anche in futuro, scalando montagne che ci facciano dire “wow, è bellissima, scaliamola”.
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