“Dum. Du-dum”. È il battito del cuore che accelera pochi istanti prima dalla partenza. E poi sale. Passa per la gola, dove smorza in un colpo solo respiro e coraggio, e poi prosegue sempre più in alto, fino alle tempie. A questo punto il cuore assomiglia a un metronomo impazzito in una stanza vuota.
Non è ancora la fatica vera e propria, ma ciò che la precede. La tensione prima del via, attimi brevi che diventano eterni in un dilatarsi indefinito di tempo, emozioni e percezioni.
È anche il vociare confuso degli altri 700 concorrenti che partono nella mia batteria, alle 10.05 di domenica 31 agosto 2014. Il giorno del mio primo Ironman 70.3 (per la cronaca: 1,9 chilometri di nuoto, 90 di bicicletta e 21 di corsa). La gara è conosciuta anche come “mezzo Ironman”, una delle più dure e lunghe in assoluto di triathlon.
Siamo a Zell am See, in Austria, nella regione del salisburghese, e di fronte a noi si staglia il plumbeo, calmo e freddo lago Ziller.
Oltre alle domande dei miei compagni di avventura agli sconosciuti con cui condividono soltanto il colore della cuffia, e le battute che tentano di smorzare la tensione, nell’anticamera della fatica sento anche la voce dello speaker. Dà le ultime indicazioni ai partecipanti. A noi 700 e agli altri 2100 iscritti che ci partiranno dietro le orecchie. Un briefing in inglese e poi in tedesco.
Qualche bambino urla, poi ride. È qui per vedere mamma o papà, o forse tutti e due. Il tifo sale, la musica cresce di intensità. Il metronomo aumenta la cadenza. La lucidità sembra abbandonarmi. Ci siamo quasi.
“BAAAAM”. Un colpo di cannone secco, un po’ di fumo e la puzza di bruciato della polvere da sparo. È il segnale. “Ave, Caesar, morituri te salutant”.
È il caos più totale. Una tonnara. Il tifo ci porta in acqua cercando di riscaldarci i muscoli dentro alle mute. Cerchiamo la bracciata giusta e fluida sin dall’inizio, cerchiamo di rompere il fiato ma ci urtiamo, imprechiamo l’uno con l’altro. Ci tiriamo calci e pugni, ma non ci lamentiamo. Sapevamo che sarebbe andata così e andiamo avanti mirando alla prima boa, piazzata a 950 metri di distanza.
Il rumore della primissima fatica di giornata è il rumore fluido dell’acqua che ci avvolge. Non assomiglia né a un fiume, né alle onde che si infrangono sulla costa. Non è nemmeno quello di una cascata. È il rumore di 700 persone che si nuotano a fianco, che iniziano piano piano ad avere il fiatone e fanno brutti versi sott’acqua per buttare fuori l’aria prima della bracciata successiva.
È un rumore a cui piano piano ci si abitua, che diventa parte di te, e che verso la fine della prima frazione sembra quasi quiete e silenzio. Passiamo anche la seconda boa, ai 1150 metri. È l’ultimo cambio di direzione. Il gruppo dei 700 si è sfaldato e iniziano a superarci anche le batterie partite dopo di noi. Le cuffie verdi fluo.
Vedo l’uscita dal lago: un materassone blu con una scritta rossa. Vorrei abbracciarlo tanto mi tira su il morale. Esco zoppicando dall’acqua e meno male che qualche volontario mi dà una mano. Tempo: 37 minuti. Sono di nuovo immerso nel frastuono della partenza: musica, urla, acqua e macchine fotografiche.
“Vai Nik!”. No. Non può essere vero. In questo frastuono riesco a sentire lei che mi dà un po’ della sua energia. Mi volto e la vedo. Marta è in prima fila e tifa per me. Incredibile. In mezzo al casino riesco a trovare una finestra di quiete: la individuo, la isolo per un attimo, spengo il rumore di contorno, faccio il pieno e poi riparto. Voglio sembrare calmo e rilassato, ma il freddo del lago dipinge tutta un’altra espressione sul mio volto.
Le urla confuse ci portano fino alla zona cambio. Prima transizione, da nuoto a bici. Come un ubriaco al rientro da una nottata brava, vago alla ricerca della prima borsa, quella blu. Pettorale numero 188. Sto cercando il cambio per la frazione di bici. Trovata. Ci metto un po’ a togliermi la muta bagnata e infilarmi il gilet e i manicotti asciutti. Poi inforco la bici, risalgo in sella al tifo e vado verso la nuova avventura.
Il tempo ci sta graziando, anche se siamo continuamente avvolti da un grigiore diffuso. Solo ogni tanto compare un po’ di sole a riscaldarci le ossa.
Il fiato deve abituarsi al nuovo mezzo di trasporto, e la gamba trovare il rapporto con il quale gira meglio. Ma oggi è un rebus di difficile soluzione. Il motivo è semplice: oggi la gamba non gira. Non ce n’è. “Calmati e ricordati comunque di mangiare e bere” mi dico. La testa, al contrario, è al suo posto e fa il suo dovere.
“Ziiip”. È il rumore della zip della sacchetta che ho montato sul telaio per mettere dentro barrette e gel. Inizio a mangiare qualcosa in un tratto di strada pianeggiante poco dopo i primi 10 chilometri di pedale.
“Click, click. Ta-tack”. È il cambio. Sto ancora cercando, invano, di trovare il passo giusto. Mi adeguo a un ritmo non particolarmente pimpante, ma che mi consente comunque di avere una buona velocità nonostante la conserva. Posizione bassa e alta cadenza di pedalate.
“Track. Ta-tack. Voooooom”. È il cambio. Quello degli altri ciclisti. Bassi sulle appendici da cronometro, biciclette da gara contre la montre. Ruote ad alto profilo, caschi aerodinamici a coda di rondine. Mi sento un principiante. Loro il ritmo l’hanno trovato e mi superano ai 50 all’ora. (Censura).
Ecco la salita: 900 metri di dislivello in 13 chilometri al 7 per cento: i primi 10 pedalabili, gli ultimi 3 al 15 per cento. Sono come una macchina ingolfata, un motore diesel al quale hanno fatto il pieno di benzina.
La fatica aumenta, il sudore mi cade copioso sul volto, il fiatone diventa il rumore assordante che copre quasi tutto il resto. Ogni tanto le sirene dell’ambulanza, le motociclette dei giudici, le urla dei tifosi e i suoni gutturali dell’apparato digerente dei miei compagni di giornata si insinuano nella mia dimensione mistica e mi riportano con la testa sulla strada. Per il resto, mi immergo nei suoni del mio corpo e viaggio con la testa al di là dell’uomo e del tempo. Sono ormai in una sorta di trance mistica e agonistica.
Mangio regolarmente, ma mai dai rifornimenti in strada. Non so il perché. Semplicemente, nel momento in cui passo davanti ai volontari che ci sporgono acqua, sali minerali e Coca Cola, faccio solo il pieno di tifo e forza per andare avanti. Le loro incitazioni in tedesco e in inglese sono un mantra indescrivibile. Guardo i chilometri che passano sul Garmin e ogni tanto piango. Ma di gioia.
“Wiiiiiii. Flap, flap, flap, flap”. Dopo il Gpm inizia la discesa. La strada è bagnata. Il ricordo della caduta sulle rotaie del tram (in una giornata non piovosa, ma comunque umida) di due mesi fa è ancora vivo. Tiro il freno più del solito. Non gli altri. Qualcuno mi passa a velocità folle, punta dritto al tornante (“adesso si schianta”, penso), una staccata da Moto Gp, piega la bici all’interno e si butta a testa bassa verso la curva dopo. Chapeau.
“BAAAM”. No, non è un altro cannone. E nemmeno qualcuno che si è schiantato contro un muro. È un temporale. Gli ultimi 40 chilometri in bici sono sotto la pioggia, sotto il rumore battente delle secchiate d’acqua gelata che si schiantano al suolo e sulle nostre teste. Accompagnati dal suono sordo del rigolo che si alza dalla ruota posteriore, mesti, tiriamo avanti chilometro dopo chilometro.
Novanta. La seconda frazione è andata. Tempo 2 ore e 58, media dei 30 all’ora. Ho limitato i danni.
Adesso ci aspetta la mezza maratona. Come reagirò? Come andranno le gambe? Poco tempo per pensarci, scendo dalla sella prima di entrare nella T2 e inizio a correre con ancora le scarpette della bici addosso.
“Clap, clap, clap, gnac, gnac, gnac”. Le scarpette bagnate avanzano sui tappeti verdi e nel prato infangato. Lascio la bicicletta e vado alla ricerca della seconda borsa, quella rossa. Numero 188. Anche questa la trovo in fretta. Non ci credo.
“Wa-wa-wawa-wa-wa”. Nella tenda dove ci cambiamo il vociare è confuso. Qualcuno si lamenta perché ha perso qualcosa, qualcuno è redarguito da un giudice, qualcun altro da un volontario per aver lanciato male la borsa o per non averla chiusa. Mi tolgo la roba bagnata e mi infilo qualche gel nel body. Riparto. Che Dio me la mandi buona. Tra due ore massimo sarà finita. “Un po’ come andare al rifugio Sella partendo dal Colle della Bettaforca”, penso. Alé.
“Flap, flap. Flap-flap”. È il rumore dei miei passi sullo sterrato lungolago dove si svolge la frazione di corsa. Le gambe iniziano ad andare bene. Cioè, con qualche dolore qui e là, ma meglio di prima. Provo ad aumentare il ritmo, ma non posso permettermi niente di stratosferico. Se aumentassi, il fiato mi chiederebbe di diminuire. Il calore del corpo mi surriscalderebbe nonostante la giornate fredda, e andrei fuori giro. Guardo ancora il Garmin. Sto correndo il chilometro a 4’30”, 4’40”. Non male comunque per essere ai primi chilometri. Mantengo l’andatura.
Dopo due chilometri passiamo in centro a Zell am See. È la prima volta che vedo davvero la città.
C’è gente che corre ovunque, e altra gente che fa il tifo da ogni parte. Uno spettacolo che mette i brividi. Prendo il primo bracciale colorato. È giallo.
Dopo un primo passaggio in centro, usciamo ancora sul lungolago. Il percorso è eterno, non si vede la fine. Vedo soltanto un serpentone di corridori davanti a me, e un altro convoglio che viaggia in direzione contraria. Dieci chilometri di gente che corre. Andata e ritorno. Pazzesco.
Qualcuno parla, qualcuno ride. Qualcuno ha smesso di correre a causa dei crampi e fa allungamento. I bambini ci danno il cinque, un po’ d’acqua e altri sali minerali. Anche in questo caso vado avanti con quello che mi sono portato da casa. Ogni 5 chilometri bevo un gel, mentre al decimo e quindicesimo prendo un po’ d’acqua e mi raffreddo la testa con una spugna.
Mi sono ripreso rispetto alla frazione bici. “Hai mangiato male nei giorni scorsi. Adesso sei più leggero e vai più veloce” penso in parte delirando. Senza più nulla in corpo, e dopo aver digerito tutto quello che ho mangiato negli ultimi giorni, mi sento effettivamente meglio. Il diesel è di nuovo pulito.
Tuttavia non accelero, vado allo stesso ritmo e mi godo la gara. Ho faticato tanto per essere qui. Voglio godermi ogni istante, ogni immagine, ogni profumo. Ogni rumore e ogni pensiero.
Al secondo giro infilo il secondo bracciale colorato. È rosa e si abbina molto bene al viola dello smalto che io e Andrea ci siamo dati sul pollice e il mignolo della mano. Non siamo una coppia di fatto: sono solo quelle cose un po’ stupide che si fanno alla vigilia.
La tensione inizia a scendere e i pensieri prendono il sopravvento. Non c’è più rumore, ma una pace silenziosa.
Penso ai miei genitori. Non potranno condividere con me questo attimo di gioia immensa, ma li ringrazio per avermi insegnato a non mollare mai.
Penso poi alle persone con cui potrò condividere questa esperienza. Perché, in fin dei conti, sto facendo qualcosa che vissuto in solitaria perde significato. Piango ancora. Un passo dopo l’altro il traguardo si avvicina.
Il silenzio scompare. È di nuovo tifo, è di nuovo caos. Sono di nuovo colori e rumori indecifrabili. Vedo il traguardo, un tappeto blu ci porta sotto l’arco dell’arrivo. Cinque ore e trenta in totale.
È di nuovo silenzio, ma solo per una frazione di secondo. E poi “WOW”. È l’ultimo respiro di fatica. È l’ultimo vero rumore di fatica.
E poi è gioia. E lacrime. E vita.
Ancora, ne voglio ancora.
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