Ci risiamo, tutti con le mani giunte in attesa che qualcuno ci faccia riaprire di nuovo. Il DPCM del 25 ottobre ha colto di sorpresa solo chi non aveva preso seriamente la situazione. Ma ora che ci hanno costretto a chiudere di nuovo, quando ci concederanno di riaprire? E come? Se riusciremo a venirne fuori, stavolta con la testa fasciata, l’esame di coscienza dovremo farlo: finiamo di mettere a posto bene le cose in casa, poi andiamo dove vogliamo. Perché alcuni, osservandolo in un lungo giro sotto copertura nei club, hanno continuato a fare i furbetti.
Le palestre serie invece, e sono la stragrande maggioranza, hanno riaperto lavorando su una comunicazione sottolineante nuove metodiche di “sanificazione”, “distanziamento”, “cautelamento” e “difesa” del cliente d’assoluta sicurezza. Ognuno sa come ha lavorato, quanto ha investito e come ha intenzione di continuare a farlo. E non si tratta solo di sicurezza dell’incolumità personale. La sicurezza doveva essere garantita anche in termini di portafoglio dell’iscritto, reintegrato mediante restituzione non sempre avvenuta dei mesi perduti causa pandemia.
E qui le prime storture, perché era proprio quella la linea di demarcazione tra il commettere o evitare il primo errore, facendo squadra soprattutto tra i club e i loro iscritti: perché una cosa sono qualche migliaio di palestre che si uniscono in una cordata sociale e comunicazionale salva-vita, ben altra è fare squadra da subito con dieci milioni di praticanti. Invece qualche occasione è stata persa, perché il cliente se la prende non per cosa fai ma per come lo fai.
Il primo step, promesso da tanti ma non mantenuto da alcuni, era per esempio prolungarlo quel maledetto abbonamento e magari aggiungerci altre cose, non barattandolo unilateralmente con borse o lezioni spesso inutili di trainer incapaci nel motivare clienti se non con le beneamate attrezzature. Si poteva subito (e si dovrà adesso) perfezionare l’asse di servizio palestra-casa, col quale, invece di contaminare, come certa sottocultura crede, con la malattia, genitori e nonni dei giovani che tornano a casa dopo l’allenamento, contamineremo con la salute e programmi di allenamento extra-club l’intero nucleo familiare.
E così, il latente conflitto sociale che non è neanche più così latente, sarà neutralizzato.
Se gli uni continueranno con attenzione a frequentare la palestra mentre gli altri faranno ginnastica a casa sempre sotto la nostra egida, tutti saranno contenti, il consenso aumenterà e le nostre funzioni (cioè il ruolo sociale delle palestre) saranno comprensibili a tutti, specie dai non frequentanti.
Solo così il fitness assurgerà a servizio “essenziale” e non più ad attività “superflua” e dunque non più a rischio, non più in perenne ballottaggio. Più persone sane vorrà dire meno persone malate negli ospedali. Bisognerà lavorare su questa trasformazione e non sulle offerte economiche aggressive. Tantomeno possiamo far finta che nulla sia cambiato forzando i clienti a correre sul tapis roulant adesso che sono spaventati. Tutto questo è una disfunzione strategica, appanna l’immagine di qualsiasi fitness brand.
E bisognerà anche tener conto dell’esplosione del fitness frammentatosi in tante direzioni, attrezzandosi attraverso quattro linee di business, una delle quali, pur mantenendo il cliente con sé, gli lascerà l’opzione più folle per il “venditore telefonico”: lasciarlo correre al parco.
Quindi:
1) servizio fisico tradizionale (voglio andare in palestra sempre);
2) servizio misto (voglio andarci ogni tanto e il club è il mio consulente salute);
3) servizio remotizzato (voglio andarci una volta al mese a farmi preparare il protocollo salute);
4) servizio + prodotto (voglio comprare servizi e prodotti collegati a quel brand anche se non frequento).
Da almeno una decina d’anni il centro fitness avrebbe dovuto riconfigurarsi in una macchina erogante tali categorie di servizi e prodotti, soprattutto in chiave extra-struttura. In effetti, la parte più sociale del lavoro delle palestre è all’esterno, sul bacino gravitazionale di riferimento. Invece si è continuato a sperare (e a telefonare a clienti esasperati) nella speranza del “botto” iscrizioni che se non c’era prima della tempesta non si vede perché debba esserci ora che comunicazioni, affermazioni, linee guida, strategie politiche, istituzionali, scientifiche sono contraddittorie e non sono definibili né nel lungo, né nel medio, né nel breve periodo.
Di qui ad almeno 12 mesi i nostri saranno budget a base zero e le linee guida dovremo tracciarle noi per proporle, invertendo così il processo di “caduta dall’alto delle soluzioni”. Per sintesi:
A) sport&fitness+salute sono un binomio in via di polarizzazione: low-cost per pubblici che non hanno grandi propensioni alla spesa e servizio personalizzato accessibile da chi ha redditi alti (bisogna lavorare su entrambi e su più mercati);
B) sport&fitness+salute rivestono funzioni sociali e aggregative che vengono meno se la palestra locale smette di erogare servizi ludico-sportivi “di quartiere” (che non ha impianti);
C) sport&fitness+salute incidono nei processi formativi delle fasce giovanili (13/18 anni), segmento verso cui gli “Allenatori-Influencer” rivestono responsabilità educative più che tecniche (figure esperte che devono connettere mondo analogico con quello digital);
D) sport&fitness+salute sono diffondibili qualitativamente solo se gli operatori sono qualitativi anch’essi da ogni punto di vista (figure stabili e non di passaggio);
E) sport&fitness+salute sono inscindibili da campagne d’educazione alimentare d’avviarsi con fasce d’età basse attraverso hub scolastici sia fisici che virtuali (presenza nelle scuole).
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