Ipotizziamo di trovarci davanti al “BlackRock Global Funds” o a un finanziatore qualsiasi che voglia compiere il primo passo ma che non sappia nulla del nostro settore. Brevissima premessa: se qualcuno è a caccia di segreti in questa nostra estemporanea divagazione, si tolga dalla testa di trovarci qualcosa di nuovo e prosegua nell’autoconvincimento che noi manager fitnessisti siamo tutti “strateghi”. Si veda la miriade di corsi della durata di qualche giorno per fitness manager, trainer, wellness operator, senior sales manager e quant’altro lo scibile proponga sul piatto entro la tale data (con prezzo in promozione). Poi si provi, se non bastasse, a scorrere la costellazione di federazioni fitness succedutesi negli anni frammentandosi più che mai senza convergere su un progetto comune. Salvo farlo forzatamente con l’esplosione pandemica del 2020, nel legittimo tentativo d’ingraziarsi istituzioni che ne capiscono ancora meno.
Ma torniamo alla domanda iniziale, ovverosia se conviene davvero entrarci a metà nel fitness o con tutti i due i piedi. La risposta al “BlackRock Global Funds” di turno sarebbe scontata: dipende. L’industria del fitness si articola sempre nelle stesse tre direzioni da cinquant’anni in qua: a) strutture e spazi di attività; b) tecnologie; c) uomini. Cominciamo con la cattiva notizia: per produrre gli stessi margini di pochi anni fa (non ricavi ma margini), occorrono oggi costi di produzione inenarrabilmente più alti. Ove avessimo presentato un piano costi/ricavi del 2020 all’imprenditore che avesse voluto, a fine anni Novanta, aprire una palestra, questo se ne sarebbe andato a gambe levate.
Poi, una precisazione tecnica: è un errore continuare a definire il servizio fitness come “servizio puro” perché di intangibilità e immaterialità non si tratta. Le dinamiche materiali e tangibili attraverso cui passa il flusso dei servizi fitness sono infinite: dalla cyclette che non reagisce se aumentiamo la resistenza pigiando sul tasto, al piatto doccia progettato male che lascia defluire fiumi d’acqua. In questi casi siamo difronte a strumenti tangibilissimi che affondano nel nanosecondo il sorriso della receptionista di una settimana. Quindi, attenzione: il fitness non è servizio. Tant’è vero che un centro fitness mal progettato o un mini-fitness-network mal posizionato, iniziano a fallire dal primo giorno di apertura, anche se poi tentano di “erogare servizi” concentrandosi sullo staff-vendite. Il tangibile qui incide e parecchio sull’intangibile, mentre un buon avvocato, un bravo consulente, erogano servizi di qualità pure su una panchina al parco.
Il gioco delle domande e delle risposte potrebbe chiudersi qui: la redditività c’è ma su progetti a “massa critica”. Un fitness network ha economie di scala, linee finanziarie cospicue, presenze sui media più importanti, flussi di utenza ininterrotti che fronteggiano quel turn-over che è la mazzata più devastante nella gestione del club. C’è però una buona notizia. L’Italia è fatta geograficamente a modo suo e tolte rarissime aree metropolitane tutto il resto è provincia. Nelle piccole stradine di provincia, che s’insinuano un po’ dappertutto, non c’è spazio per i grandi FITNESS-TIR, costretti per dimensioni a viaggiare sull’autostrada. Fortuna vuole che almeno per ora questi autoarticolati del fitness non riescano a “farsi strada” in tali contesti.
Alcune marche di FITNESS-TIR, tuttavia, potrebbero iniziare a riconsiderare i loro format-standard per inserire in parallelo, assieme alle grandi fitness-unity metropolitane, postazioni più micro ma dotate degli stessi vantaggi strategici di cui prima in aree di provincia selezionate. Potremmo fare una lista delle città che in Italia risponderebbero al volo a proposte di fitness di questo tipo, variegate, organizzate e tagliate su misura per ogni cliente: a quello che in palestra ci andrà sempre ma anche a quello che in palestra non ci andrà mai. A buoni intenditori, pochissime parole: investire sull’intangibile, altrimenti a vincere sarà il tangibile. Solo più spazioso.
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