No, non i 42,195 km a cui Fidippide e Michel Bréal hanno condannato tutti quelli che si sentono veri runner nello spirito. Ho corso la Milano Marathon Relay con gli Adidas #Cityrunners: a me è toccata in sorte la seconda frazione, da viale Caprilli a via Vittori Pisani, e per una volta non contavano la distanza e i tempi, ma il desiderio di vivere l’esperienza di una maratona dall’interno.
Come è andata? Benissimo.
Alla partenza mi sentivo un disastro: le ginocchia mi facevano male, sentivo le gambe molli, avevo una fitta nel fianco, lo stomaco chiuso, una leggera sensazione di nausea e mi scappava la pipì (e forse anche il resto). Le condizioni ideali per gareggiare.
Poi è arrivata Eleonora, la nostra prima staffettista, ed è stata come un’endovena di adrenalina: l’ho vista all’improvviso, l’ho chiamata, mi ha visto, mi ha mollato in mano il testimone e son partito. Il nostro posto di cambio era il primo del lungo scaglione, e ho percorso i primi 700 metri tra due ali di staffettisti che urlavano e battevano le mani incitando i propri compagni. Mi sentivo come se potessi dare 2″ a Usain Bolt sui 100 metri.
Ma sono stato bravo: ho evitato di farmi prendere dall’entusiasmo, sono partito come un diesel in inverno confondendomi con quelli dei 42 km che già cominciavano a patire, ho cercato una lepre che procedesse alla mia velocità e quando l’ho individuata (era grosso, giallo e biondo, non potevo perderlo di vista) non l’ho più mollato.
Finito il caos e zittitasi la città, ho cominciato ad ascoltarmi ed ascoltare: dolori, dolorini e doloretti erano svaniti e sentivo intorno a me l’ansimare degli altri runner, il calpestio dei piedi sull’asfalto milanese e il battimani di quanti volevano godersi la Maratona di Milano anche solo da bordo strada (poi c’erano anche quelli che ci incitavano suonando il clacson e mandandoci a quel paese, ma questo è un altro discorso).
Al rifornimento di Lampugnano ho preso una bottiglietta d’acqua e bevendo e sputando a piccoli sorsi ho sciolto quella lingua felpata di fantozziana memoria che mi portavo in giro dal risveglio. Svoltato in viale De Gasperi mi sentivo proprio bene, e infatti ho avuto la prima allucinazione: a un certo punto ho sentito della musica a volume altissimo, tipo di quelli che al mare in estate tengono i finestrini abbassati per far sentire il nuovo subwoofer. Non potevo credere che qualcuno avesse il volume degli auricolari così alto, e infatti non era così: dietro di me c’era un ragazzo che correva brandendo uno di quegli speaker portatili con Bluetooth per smartphone. L’ho seguito per un po’, prendendo il ritmo della musica, finché il cavalcavia di viale Scarampo non si è presentato minaccioso con l’intenzione di tagliarci le gambe.
L’ho affrontato con circospezione ma qualche effetto deve averlo prodotto, perché dopo la svolta in via Gattamelata son cominciati i deliri: accanto a un noto concessionario auto della zona ho cominciato a ripensare a tutte le auto che ho avuto in vita mia, marca, modello, numero di targa e chilometri percorsi. Non sono state molte, ma sufficienti a tenere la mente impegnata fino alla svolta in viale Sempione, quando tra me e me ho cominciato a cantare “Milano (non è l’America)” dei Timoria (che peraltro non mi sono mai piaciuti granché).
Alla fine di viale Sempione c’era il secondo ristoro: davanti a me avevo uno con la maglia di Toni ai tempi del Palermo, e intorno un profumo di fritto misto che mi ha fatto venire voglia di gamberoni alla griglia. Mi sentivo pronto per una seduta psicoanalitica o un trattamento sanitario obbligatorio. Quando dopo aver svoltato in via Melzi D’Eril un runner che stavo superando mi ha salutato calorosamente, i dubbi sono diventati certezze: pensava di conoscermi, ma non ci eravamo mai visti in vita nostra, e nei nostri sguardi c’era tutta la comprensione e la compassione di cui un essere umano può essere capace.
Intanto i chilometri passavano e cominciavo a pensare di potercela fare senza fermarmi, e così ho resistito alla tentazione di fiondarmi dentro a uno dei numerosi centri massaggi asiatici che si trovano in zona Porta Volta (e non ero certo in condizione di cercare ‘quel‘ genere di massaggi di cui si vocifera).
Ormai mancava davvero poco, mi serviva uno stimolo per non mollare proprio in vista del traguardo, e mi è stato servito sotto forma di una runner che sulla t-shirt portava la scritta Super Topina: lei era il mio faro nella notte e sbanfando come neanche in un romanzo di Irvine Welsh sono arrivato alla svolta in via Vittori Pisani che ho affrontato urlando “Andrea! Andrea!” come neanche Rocky che chiamava Adriana. Il mio cambio era lì, pronto e rassicurante come deve essere uno staffettista, gli ho mollato il testimone, mi son guardato intorno, ho visto gli altri #cityrunners felici, stravolti e sorridenti, ho ripensato a quando tutto questo è cominciato, e mi sono detto: “Be’, ce l’abbiamo fatta!”.
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