Correre una maratona in meno di 2 ore è l’ultima grande barriera psicologica e simbolica dello sport moderno. Per rimanere all’atletica e alla corsa come il muro dei 4 minuti sulla distanza del miglio, abbattuto da Roger Bannister il 6 maggio 1954. O come i 100 metri in meno di 10 secondi, corsi per la prima volta da Jim Hines il 14 ottobre 1968 ai Giochi olimpici di Città del Messico. In effetti cosa serve per correre una maratona in meno di 2 ore bisognerebbe chiederlo a Eliud Kipchoge, che la distanza di una maratona l’ha coperta in 1:59:40.2 nella sfida Ineos 1:59 il 12 ottobre 2019 a Vienna. Ma non era una vera maratona omologata e riconosciuta dalla IAAF, bensì una sfida-evento, realizzata in condizioni ritenute ideali per tipologia di percorso e temperatura. Non che il risultato infici in qualche modo la grandezza di Kipchoge, che di una vera maratona detiene il record mondiale, quel 2:01:39 fissato il 16 settembre 2018 a Berlino. Ma quel 1 minuto e 39 secondi potrebbe voler dire dover aspettare un decennio, se hanno ragione Francois Perronet e Guy Thibaut, due ricercatori canadesi che hanno sviluppato un modello matematico secondo il quale il limite della maratona in meno di due ore resisterà almeno fino al 2030.
Per fortuna non tutto dipende sempre dalle “magnifiche sorti e progressive” e lo slancio eroico degli uomini e degli sportivi ha sempre dimostrato che i limiti sono fatti per essere abbattuti. E i modelli matematici per essere smentiti. Che è quello che ha fatto il team di Breaking2 di Nike, il primo tentativo di sfondare il muro delle 2 ore avvenuto sul circuito di Monza il 6 maggio 2017 (Kipchoge si fermò al tempo di 2:00:25). Da quel tentativo è uscito finalmente uno studio corposo condotto dal professor Andrew Jones della University of Exeter (e già allenatore Paula Radcliffe, che una maratona l’ha corsa in 2h15’25” a Londra nel 2003, a lungo record mondiale della specialità). Il paper di Jones, che ha lavorato alla selezione degli atleti di Breaking2, conferma sostanzialmente ma non completamente le supposizioni del team di Breaking2. Per correre una maratona in meno di 2 ore occorre lavorare sul massimo consumo di ossigeno (o VO2 Max), sulla soglia aerobica (o soglia del lattato) e sull’economia di corsa, cioè l’ottimizzazione dell’energia e dello sforzo dispersi nell’atto di correre. Ciò che però ha scoperto lo studio a posteriori di Andrew Jones è che per i primi due aspetti, che riguardano la metodologia di allenamento, non sono importanti tanto i valori assoluti quanto il loro punto di equilibrio.
“I requisiti di una maratona in due ore sono stati ampiamente dibattuti, ma le effettive esigenze fisiologiche non sono mai state analizzate prima. Alcuni dei risultati analizzati – in particolare la VO2 max – non erano in realtà così alti come ci aspettavamo. Invece, quello che abbiamo visto nella fisiologia di questi corridori è un perfetto equilibrio di caratteristiche per le prestazioni della maratona” ha detto il professor Andrew Jones.
Andando nel dettaglio dell’analisi del professor Jones: i test di corsa eseguiti sugli atleti durante la fase di selezione per Breaking2 hanno rilevato che per correre al ritmo di 21,1 km/h per 42 km e 125 metri occorre un consumo di ossigeno di 67 ml per kg di peso al minuto, o circa 4 litri al minuto per un atleta di 59 kg (Eliud Kipchoge ne pesa 52). Che è il doppio di quanto consuma una persona normale a cui venisse chiesto di correre al massimo della sua velocità, ma non è un risultato “mostruoso” in termini assoluti: “Per correre per due ore a questa velocità, gli atleti devono mantenere quello che chiamiamo VO2 ‘stazionario’. Ciò significa che soddisfano il loro intero fabbisogno energetico aerobico senza fare affidamento alla respirazione anaerobica, che esaurirebbe le riserve di carboidrati nei muscoli e porterebbe a un affaticamento più rapido” ha aggiunto il professor Jones.
Ed è qui che interviene la grandezza di Kipchoge e degli altri corridori ingaggiati per Breaking2, 15 su 16 dei quali provenienti dall’Africa orientale. Tutti questi atleti d’élite “sembrano sapere intuitivamente come correre appena al di sotto della loro ‘velocità critica’, al limite del ‘punto di svolta del lattato’ ma senza mai superarlo” ha dichiarato il professor Andrew Jones. Questo è il punto fondamentale, perché il punto di svolta del lattato, il ‘muro” come lo chiamano i runner e i maratoneti, tende a scendere leggermente e progressivamente nel corso di una maratona, e la grandezza di questi corridori sta proprio nel fatto di avere un’economia di corsa, intesa sia dal punto di vista biomeccanico che fisiologico, tale per cui riescono ad adattare il proprio VO2 Max nel corso della prestazione per rimanere sempre appena sotto il limite del punto di svolta del lattato. Cioè appena sotto quel momento in cui si esauriscono le riserve di glicogeno e il corpo passa alla combustione dei grassi, che è meno efficiente e significa l’insorgere della fatica e il calo della velocità di corsa.
Dire che Eliud Kipchoge e tutti gli altri atleti analizzati hanno una straordinaria resistenza alla fatica è quasi banale, ma sapere che per abbattere il muro delle 2 ore in una vera maratona servono atleti in grado di gestire il punto di equilibrio tra VO2 Max e soglia del lattato traccia la strada verso la ricerca di chi riuscirà a raggiungere questo straordinario risultato.
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