Running, i dati da controllare: perché guardare solo i chilometri percorsi è sbagliato

Running, i dati da controllare: perché guardare solo i chilometri percorsi è sbagliato

Nel running ci sono tanti dati da controllare e che spesso sono il frutto della combinazione di più indicatori: monitorare solo la distanza percorsa è limitante e non fa capire i livelli di stress fisico a cui stiamo andando incontro.
Nonostante le funzioni sempre più avanzate e tecnologiche dei fitness tracker, numerosi runner di ogni livello tracciano e giudicano i propri allenamenti tenendo in considerazione solamente un dato che, a volte, diventa una specie di ossessione: il numero di chilometri percorsi (per singola sessione e/o settimanalmente). Come si legge su un nuovo report accademico, intitolato “Andare oltre la ‘distanza’ settimanale: ottimizzare la quantificazione del carico di lavoro dei runner” e pubblicato sul Journal of Orthopaedic & Sports Physical Therapy, la diffusione degli orologi GPS per la corsa ha trasformato il monitoraggio dei chilometri percorsi in un chiodo fisso che distoglie l’attenzione da tanti altri aspetti fondamentali del running. Insomma, considerare solo il chilometraggio è sbagliato e può rivelarsi una occasione persa per capire tante cose interessanti sul nostro corpo in fase di sforzo fisico: andiamo a vedere perché.

I dati da controllare nel running: perché guardare solo la distanza percorsa è limitante

Lo studio esposto nel report è stato condotto da un team di ricercatori composto da un biomeccanico, due fisioterapisti e un fisiologo. Questi esperti hanno una caratteristica in comune: vanno a correre nel tempo libero. Ecco perché hanno messo in sinergia le rispettive competenze per analizzare in profondità le loro sessioni di running. I risultati hanno confermato un fatto che, nonostante possa sembrare scontato, viene spesso sottovalutato: fare affidamento solo sul chilometraggio è sbagliato perché la distanza percorsa non è un indicatore dei livelli di stress a cui si sta sottoponendo il fisico.

La corsa è un’attività che può essere, a lungo andare, logorante per le articolazioni, dunque bisogna affrontarla con coscienza e tenendo in considerazione diversi dati da controllare. Ad esempio, una sessione di trail running da 10 chilometri è ben diversa da un allenamento 10×1000 su pista: serve un approccio differente. La tecnologia ci offre tantissime opportunità che andrebbero sfruttate per capire queste differenze. La maggior parte dei fitness tracker sono in grado di monitorare la frequenza cardiaca (dinamica e statica), l’affaticamento e il livello di ossigeno nel sangue: tutti parametri che è sempre meglio osservare, senza però diventare fanatici delle statistiche (la corsa dovrebbe, prima di tutto, essere un piacere).

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Usare i numeri per capire la reale intensità dei nostri allenamenti e lo sforzo percepito

Secondo il report, concentrarsi solo sulla distanza percorsa significa sottovalutare completamente due aspetti: il rapporto fatica-forma fisica e il rischio infortuni. Nel primo caso bisogna focalizzarsi sull’intensità della corsa e sullo sforzo, più che sulla durata e sul chilometraggio. Per farlo è importante considerare il ritmo medio per chilometro e la frequenza cardiaca. Un trucco suggerito dagli esperti consiste nel moltiplicare la durata con lo sforzo medio percepito in ciascuna sessione (su una scala da 1 a 10), sommando poi i punteggi accumulati settimanalmente. In questo modo avremo un’idea abbastanza realistica di quanto sia stata dura (dal punto di vista fisiologico) la nostra settimana di allenamento.

Un’altra scala che viene spesso utilizzata è quella di Borg (o scala RPE/scala di percezione dello sforzo), che spesso si configura in valori dal 6 al 20 (in ordine crescente). Valori che poi andranno messi in relazione con la frequenza cardiaca durante la corsa. Il 6, a grandi linee, corrisponde a 60 battiti al minuto (valore minimo), mentre il 20 a 200 battiti al minuto (valore massimo). La soglia anaerobica, ossia il punto di demarcazione fra esercizio moderato e intenso, è solitamente posta al numero 18 (85%). Ovviamente, quando si esprime lo sforzo percepito durante l’attività, bisogna essere sinceri al 100%, altrimenti la scala non è efficace.

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Gli aspetti da considerare per capire il rischio di infortunio

Per quanto riguarda il rischio di infortunio, gli esperti sostengono che manchi un’unità di misura che combini il chilometraggio e il ritmo. La scienza non ha ancora scoperto l’indicatore ideale di dati da controllare per farci capire se, a causa dello stress a cui stiamo sottoponendo il fisico, stiamo rischiando di farci male. All’interno del report è però presente una tabella che, sotto questo punto di vista, può dare una mano. In pratica gli esperti hanno fatto un confronto fra tre corse da 10 chilometri affrontate in condizioni differenti: una corsa facile su terreno morbido quando il runner è riposato, una corsa facile su terreno morbido quando il runner è stanco, una sessione di 10×1000 in pista. Un corridore di buon livello, si legge sul report, impiega indicativamente 6 minuti medi per chilometro nella prima corsa, 7 minuti per chilometro nella seconda e 2 minuti e 25 secondi per chilometro (per ciascuna ripetuta) nella terza. Durante la sessione di 10×1000 in pista, anche se si fanno meno passi e se si corre per meno minuti, il piede colpisce più forte il terreno e si fa più pressione sul tendine d’Achille. Nella corsa di 10 chilometri da stanchi, invece, il piede e il tendine d’Achille sono sottoposti a sforzi minori: questi sono fattori da considerare quando vogliamo “misurare” il rischio di infortunio.

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Photo by Rosemary Ketchum from Pexels

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