Il racconto di chi ha partecipato alla storica gara notturna di scialpinismo, con il solo obiettivo di concludere il tracciato entro il tempo limite. La Sellaronda Skimarathon ha portato due amici – Carlo Brena e Stefano Gipponi – a condividere la sfida e le sue emozioni: ecco la storia della loro piccola impresa nelle parole di Stefano.
Questo Sellaronda è un ottovolante di emozioni. Ti rovescia, ti mette sottosopra più per i sentimenti che vivi, che per lo sforzo (pur devastante) che provi. Sin dalla partenza, quest’anno da Selva di Gardena, tra montagne bellissime al tramonto e colpo d’occhio che si allunga sul “serpentone” delle montagne che dovremo affrontare. Al colpo di cannone di gran lena ci scavalchiamo l’un l’altro per affrontare la prima impegnativa salita del Danterciepies.
Carlo mi dice di avere l’adrenalina a mille. Io di contro parto vuoto come spesso mi succede nell’anticamera di una nuova sfida: creo spazio per le nuove emozioni. La prima ascesa è dura, faccio fatica, le gambe stanno bene, ma il motore non parte. Salgo di passo, del mio passo. Carlo scatta avanti, con la coda dell’occhio controlla dove sono voltandosi continuamente. Non lo perdo di vista. Controllo il cronometro che va in tilt, lasciandomi al buio su come stiamo andando. Faccio tutta la salita pensando di essere troppo lento e sono colto dallo sconforto: ho paura di essere già fuori del tempo massimo del primo cancello. Poi arrivo al primo cambio, dove Carlo mi sta aspettando. Mi accoglie con un “bravo socio”. Si, accidenti, siamo in tabella.
Allora via, a capofitto nella discesa. Carlo va fortissimo, molto più forte di quel mi aspettassi. Bene, ha deciso che vale la pena rischiare la vita! Arriviamo al primo cambio di Corvara e siamo davvero felici. Incontriamo le nostre “guide” Mirella e Terri, più eccitate di noi. Indossano due parrucche fluorescenti davvero imbarazzanti che la dicono lunga sul livello di noi atleti (Carlo e io) e del nostro intimo fan club.
La seconda salita va meglio, arriviamo presto al cambio di Passo Campolongo. Incominciamo davvero a divertirci. Abbiamo un diverso modo di affrontare i cambi, io e Carlo, e questo rispecchia forse un po’ quello che siamo: lui che si prende tutto il tempo necessario per recuperare, anche mentalmente, facendo le cose in modo ordinato. Io che non voglio perdere nemmeno un secondo e lo incito a fare in fretta per volare il prima possibile verso la discesa che ci aspetta. Carlo ha un piccolo problema meccanico, gli si rompe la lampada, perdiamo qualche minuto, ma in discesa, dove io con la luce in mano gli faccio strada, vola davvero. Mi dirà più tardi che spesso chiudeva gli occhi!
Va bene così. Siamo ad Arabba, siamo euforici, abbiamo più di mezz’ora di vantaggio sulla nostra tabella di marcia. Ma il Pordoi ci aspetta, ed è una salita tutta da interpretare: non è particolarmente dura come pendenza, ma è lunga e soprattutto ci becchiamo un vento gelido contrario. Arriviamo in cima al cambio con Carlo che deve superare una crisi e io con mani e piedi completamente gelati. E giù, di nuovo sconforto: la discesa verso Canazei è lunga, molto lunga. Soprattutto quando arrivi in prossimità del paese è scoraggiante perché incroci gli “avversari” che già risalgono in lunga fila e illuminano il muro del Lupo Bianco. Quella sì che è una parete da scalare.
Arriviamo a Canazei, il passaggio nel cuore del paese è un brivido: bello e suggestivo questo tratto su neve appositamente riportata per le vie. La gente che ti incita ti dà quell’energia che ti serve per andare avanti.
Arriva il Lupo Bianco: 24% di pendenza. La temperatura sale perché siamo riparati dal vento. Lo affrontiamo, lo domiamo, lo conquistiamo. Arriviamo al cancello più temuto e più duro. Ci attende un personaggio che ulula in mezzo alla pista. Gli rispondo urlando a mia volta. Siamo felici, è fatta, ma il cambio è davvero ancora lontano, la salita non è finita. Carlo mi incita, gli rispondo rompendo il nostro silenzio, ma quanto è lunga… Il nostro rapporto è fantastico: questo nostro modo di viaggiare l’abbiamo trovato in comunione, senza dirci nulla. Silenzio nella fatica, le parole poche ed essenziali nel recupero. Non avevamo bisogno di parole, ci sentivamo comunque.
La salita è finita, affrontiamo l’ultima discesa con la massima calma, pregustando quel momento di assoluta gioia che ci aspetta al traguardo. A illuminare la pista le fiaccole, ma anche loro sono ormai stanche e le poche che resistono ci lasciano intravedere gli ultimi metri verso la meta. Ci cerchiamo io e Carlo, cominciamo a festeggiare, e dopo la linea ci lasciamo andare sommersi dal mare di emozioni che sino a quel momento abbiamo trattenuto. Ce l’abbiamo fatta. Grazie Carlo, è stato un bell’incontro.
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