40 ore la settimana a scuola. Almeno altre 4 a ‘fare sport’: tipicamente calcio per i maschi e danza per le femmine. Poi c’è inglese, un corso di musica, ovviamente i compiti a casa. E nel weekend magari qualche altro appuntamento fisso come la partita, il saggio, il torneo. La vita dei nostri figli è così, più o meno uguale per tutti, dalle Alpi alla Sicilia. E ci sembra normale.
Ma quando ho letto alcuni dati americani sulla pratica sportiva di bambini e ragazzi ho cominciato a riflettere e preoccuparmi: da padre di due figli di 3 e 7 anni che fanno sport, e da sportivo praticante, ho cominciato a chiedermi se è questo il modo migliore per educare i nostri figli al piacere di una vita attiva.
Quali dati? Secondo uno studio della Loyola University di Chicago due bambini americani su tre praticano un solo sport in maniera altamente specializzata (lo scrive David Epstain sul New York Times), e secondo lo stesso studio un terzo di questi mini-atleti corre seriamente il rischio di un grave infortunio dovuto all’usura: è il modello Agassi, raccontato nella sua autobiografia “Open”, o il miraggio genitoriale di una carriera alla Tiger Woods, bambino prodigio del golf già all’età di 2 anni.
Non solo: secondo l’Open Access Journal of Sports Medicine ora dell’adolescenza l’80% di questi giovani sportivi ha abbandonato lo sport ed è diventata sedentaria (lo scrive Jay Atkinson sul Bostob Globe). Un dato simile a quello della National Alliance for Sports secondo cui il 70% dei ragazzi e delle ragazze molla lo sport entro i 13 anni: per eccesso di stress. Un vero e proprio bornout da sport giovanile. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, a cominciare dal numero di bambini e bambine sovrappeso.
Eppure se ripensiamo alla nostra infanzia non ricordiamo corsi, impegni, allenamenti e lezioni, ma lunghissimi pomeriggi passati a giocare liberamente con gli amici. Spesso in strada, spesso nella natura, quasi sempre senza la supervisione di un adulto. Era gol quando la palla superava la porta formata da due sassi messi per terra, la casa sull’albero non era qualcosa di pericoloso e potevamo tornare a casa pieni di fango senza che fosse una tragedia.
Come siamo arrivati allora alla situazione attuale? Più o meno nello stesso modo, qui in Italia e in USA: secondo uno studio pubblicato nell’American Journal of Play il tempo dedicato dai bambini al gioco si è ridotto del 25% dal 1981 al 1997; il gioco all’aperto addirittura del 50%, con una media di meno di 10′ al giorno passata a giocare fuori casa (lo dice un report della National Wildlife Federation).
Le cause sono ben note: la crescente urbanizzazione delle nostre vite, la riduzione degli spazi a disposizione del gioco, il fatto che in sempre più famiglie entrambi i genitori devono lavorare, il senso di sicurezza che ci dà il sapere i nostri figli nelle mani di un tutor anziché per strada, le associazioni sportive che si prendono cura dei nostri figli in orari critici per le nostre giornate. E forse altre ancora.
Chiariamoci: fare sport, anche organizzato, è fuor di dubbio positivo. Secondo il Center for Disease Control, se non influenzati dagli adulti, bambini e ragazzi che praticano regolarmente sport migliorano l’autostima, apprendono la lealtà, imparano a mettersi alla prova e forgiano il fisico e la mente: per crescere in modo sano ed equilibrato bambini e adolescenti dovrebbero fare almeno 1 ora al giorno di attività motoria.
Ma con buona pace del progetto Sport in Classe appena lanciato da Coni e Ministero dell’Istruzione, a scuola i nostri figli non la fanno, e un solo sport, o solo lo sport organizzato dagli adulti, non è la soluzione.
Da un lato perché, a dispetto delle aspettative dei genitori, non è quella la strada verso l’agognato successo: nonostante gli Agassi e i Tiger Woods, numerose ricerche dimostrano che gli atleti top al mondo si sono specializzati solamente nell’adolescenza, praticando molteplici attività sportive almeno fino ai 14 anni, e mettendo poi a frutto nella loro carriera il bagaglio motorio e le capacità condizionali e coordinative acquisite tramite quella varietà di stimoli ed esperienze.
Ma soprattutto perché le conseguenze peggiori della mancanza di attività libera le pagano i nostri figli: sempre secondo la ricerca dell’American Journal of Play i bambini che non hanno sufficienti spazi e tempi di gioco libero sono maggiormente soggetti ad ansia, depressione e disturbo dell’attenzione. Parimenti secondo il dottor Stuart Brown, psichiatra e fondatore del National Institute for Play, il gioco è un fondamentale aspetto di ogni animale sociale: per esempio il gioco migliora le funzioni cerebrali e insegna ai bambini a collaborare. Anche – e lo dice il dottor Brown – quei giochi rumorosi, disordinati e fisici che noi genitori tendiamo sempre a fermare sul nascere e che invece insegnerebbero ai nostri figli i limiti e il rispetto.
Secondo gli autori del libro The Art of Roughhousing quei giochi rozzi, rumorosi, un po’ grezzi e vagamente maneschi stimolerebbero le capacità di problem solving, aumenterebbero la resilienza e darebbero sensazioni di pura gioia ai nostri figli. Un vero e proprio feedback positivo dell’esistenza. E non a caso Anthony DeBenedet e Lawrence Cohen, nel loro sito, forniscono tutta una serie di idee e suggerimenti sui cosiddetti horseplay che potremmo fare con i nostri figli: dalla battaglia dei cuscini alla lotta nel prato, per capirci.
Quindi che fare? Iscriverli a qualche corso sportivo, fin dalla prima infanzia, rimane comunque una scelta positiva, ma compito di un genitore è anche quello di assicurarsi che lo sport corrisponda anche ai desideri di piacere e gratificazione dei figli: diffidando delle richieste di iperspecializzazione che troppi istruttori avanzano per bambini e bambine già prima dell’adolescenza (in America è nato un vero e proprio movimento chiamato Changing The Game Project); diffidando di quelle organizzazioni sportive che considerano i bambini degli atleti in miniatura (per capire come si sente un bambino a giocare su un campo ‘regolamentare’ la NHL americana ha costretto dagli adulti a giocare su un campo di 94×50 metri anziché i canonici 60×25); invitando i nostri figli a sperimentare variegate attività sportive; lasciando loro il tempo e il modo di sperimentare il gioco libero all’aperto, magari cominciando proprio dalle 50 cose da fare prima dei 12 anni suggerite dal National Trust inglese.
Photo Credits: FlickrCC FlickrCC Marianne O’Leary
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