Lasciamo perdere la storiella di Monsieur De Ravanage e dei suoi fantomatici scritti ritrovati dentro una truna oltre quota 4.000 sul Monte Bianco: è solo uno scherzo per raccontare una modalità di fare escursioni – qualunque tipo, a piedi come in bici, in estate come in inverno, in montagna ma non solo – che oggi nei paesi anglosassoni viene chiamata anche scrambling e che ha molto a che fare con l’approccio alla vita più che allo sport.
Ravanage (o scrambling)
Ravanare, nelle forme dialettali del nord Italia, significa sostanzialmente rovistare, rimestare, frugare in modo disordinato e creando confusione. Scrambling, che è il termine usato in inglese, è molto vicino dal punto di vista del significato, che va dal rimescolare all’arrampicarsi al saltare fuori, a seconda dei contesti. Ora, al netto della sempre più spiccata tendenza – anche nel mondo dell’outdoor – al voler definire ogni micro-attività con un nome specifico, e anche a volergli abbinare dei prodotti specifici, il ravanage, o scrambling che dir si voglia, inteso come vagare per aree montane o boscose, in modo istintivo, un po’ off the beaten tracks, pienamente nella dimensione del divertimento di Tipo 2 che è quel mettersi un po’ nei casini per il piacere di mettersi nei casini, è più che altro una filosofia di vita, un approccio plaisir, un modo anarchico e fuori dagli schermi di vivere delle (seppur micro) avventure che mettono un po’ di incertezza anche laddove si cerca sempre più di ridurla al minimo.
Elogio del ravanage
Quando si parla di ravanage si parla di qualcosa che sta tra l’escursionismo e l’arrampicata o alpinismo di grado facile, tra la classe 3 della scala Yosemite e il 2° grado di quella francese, si parla di ciaspole come di ski touring, si parla anche di MTB o gravel volendo, laddove ci siano dei momenti di portage. Ma in ogni caso si parla di quei momenti in cui la curiosità, il desiderio di uscire dai sentieri battuti, l’istinto a scoprire qualcosa di diverso e nuovo, ti portano inevitabilmente a incasinarsi un po’.
Appunto quel divertimento di Tipo 2 che trovi miserabile mentre lo fai, che ti maledici da solo o senti le maledizioni dei tuoi compagni o compagne di escursione, ma che poi quando lo racconti a posteriori lo trovi divertente, molto divertente. E appunto memorabile.
L’elogio del ravanage è l’elogio dell’incertezza, di quei momenti in cui il segnavia ti dice di andare da una parte ma non riesci a resistere alla tua domanda interna sul “perché non andiamo di qui invece?”. È l’elogio del perdersi, fregandosene anche un po’ di GPS, tracker, Komoot e file assortiti per il puro piacere poi di ritrovarsi. È l’elogio di quei momenti in cui al sentiero battuto preferisci la boscaglia, il procedere con mani e piedi, il caricarti la bici in spalla, il mettere i piedi nel fango.
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Ravanage, o dell’uscire dagli schermi
È fondamentalmente la voglia di uscire un po’ dagli schermi, quegli schemi che ormai pervadono ogni momento (o quasi) della nostra vita, e che stanno conquistando sempre più anche gli ambiti di libertà delle attività outdoor. Sono microavventure che puoi fare anche nel bosco dietro casa, uscendone magari con qualche graffio e qualche strappo sui pantaloni, magari esattamente da tutt’altra parte rispetto a dove pensavi di essere; microavventure che vivi quando parti per un’escursione e ti lasci guidare dall’istinto, girovagando senza un vero obiettivo (o fragandotene anche un po’ della meta) per il puro godimento del girovagare.
Microavventure all’insegna della serendipità, come si dice oggi, in cui non arrivi dove volevi arrivare, ma scopri qualcosa che non pensavi di scoprire. Una eterogenesi dei fini che allarga anche un po’ il tuo orizzonte di esperienze, fisiche e mentali, e che mette una goccia di anarchia e punk in un mondo che è sempre più polarizzato tra ciò che tenta di ridurre al minimo ogni inconveniente e ciò che deve spingere i limiti sempre oltre.
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Photo by Mike Cox / KEATON NYE / Lukas Mann / James Harrison
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