In Alaska sulle tracce di Into the Wild, le foto del mondo selvaggio

Emanuele Equitani di fronte al Magic Bus
Credits: Emanuele Equitani

Il fotografo Emanuele Equitani ha ripercorso il cammino tragico di Chris McCandless e ne ha ricavato un reportage straordinario, che puoi vedere nella gallery. Ci sono il remoto Denali Park, la natura selvaggia, il ghiaccio. E il Magic Bus in cui McCandless visse e morì, immortalato dal libro Into the Wild di Jon Krakauer (1996) e dal film di Sean Penn (2007), al punto da diventare meta di viaggi-avventura più o meno organizzati. Con polemiche per la pericolosità e le vittime che si sono accumulate negli anni. Anche per questo il Magic Bus è stato rimosso dalla sua sede.
Guarda la gallery delle bellissime foto del reportage.

In Alaska sulle tracce di Into the Wild, le foto

Non è la prima volta che va da quelle parti: Equitani segue da alcuni anni l’Iditarod (è fotografo ufficiale riconosciuto dalla Commission della corsa) e appena può scappa in Alaska, attratto da qualcosa di più grande di noi. Lo abbiamo intervistato, scoprendo un personaggio con molte cose da dire.

Sei stato folgorato dal libro di Krakauer, o dal film di Sean Penn?

Quando uscì il film (2007) non ne rimasi subito coinvolto, per me Chris era uno dei tanti ragazzi che, andando alla scoperta della natura selvaggia, ci aveva rimesso la vita. Due anni dopo la sua uscita comunque mi trovai per le mani il dvd e  scoprii la storia di questo ragazzo.

Cosa ti ha colpito della storia di Chris McCandless?

Chris aveva la mia stessa identica visione della natura e lo stesso approccio a essa, in particolare l’idea che ormai, in questo mondo cosi moderno e tecnologico, bisogna buttar via tutto così da perdersi per ritrovare noi stessi.

Hai fatto tua la frase di McCandless: “Ora cammino, nella natura selvaggia”…

Sì, veniamo dalla natura e non dalle città: entrare nella natura e perdersi è il miglior modo per tornare a casa.

La sua è una storia tragica. C’è qualcosa che può insegnarci?

Nonostante la morte sia un aspetto tragico, anche nella morte, anzi, sopratutto nella morte, bisogna meritarsi il posto in cui morire. Penso che andarsene nel posto che ti sta a cuore, nel caso di Chris  la natura più selvaggia dell’Alaska, sia un onore. Non fraintendetemi, naturalmente non credo che nella morte ci sia nulla di positivo, ma semplicemente che tra tutti i modi in cui può finire una vita, il modo migliore sia nel fare quello che più ami.

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Come mai sei così affascinato dall’Alaska, dall’Iditarod e dal grande nord?

Non ho mai capito come mi è nata questa grande passione. A 12 o 13 anni già pensavo all’Alaska come un posto fantastico anche se ancora non sapevo nulla di questa grande terra. Un giorno trovai a poche lire in una libreria una piccola guida in bianco e nero sull’Alaska e la comprai subito con gli unici soldi che avevo. Da li, documentandomi, è nato un vero e proprio amore.

Raccontaci della spedizione in Alaska: come l’hai organizzata?

In questo ultimo mio viaggio la spedizione ha richiesto poco tempo grazie a una ex guardia parco del Denali che mi ha aiutato sotto l’aspetto logistico, mi ha trovato una baita dove dormire, i cani da slitta e tutto il resto.

Hai avuto qualche complicazione?

Avevo paura più che altro per la mia attrezzatura visto la temperatura sotto i meno 30 gradi. Ma ha funzionato tutto a meraviglia: pianure innevate, foreste e montagne, mi sentivo a casa!

Come si fa a scattare foto a meno 30 gradi?

Solo l’ultima sera ho avuto un piccolo problema, stavo fotografando da più di tre ore a -30° una splendida aurora boreale su un lago ghiacciato, e ho rischiato di perdere qualche dito o l’intera mano destra (dove tenevo il telecomando della reflex). Sono andato a dormire non sapendo se il giorno dopo sarei dovuto andare a tagliare qualcosa.

 

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Hai usato una slitta trainata da dodici cani. Raccontaci qualche aneddoto.

Non era la prima volta che andavo con i cani da slitta in Alaska, quindi per me non era una novità, ma comunque non avevo mai percorso così lunghe distanze. Un bel ricordo è una splendida cagnolina della mia muta che non aveva mai dormito fuori: ero un po’ in pensiero per lei, ma si è comportata benissimo, un vero cane da slitta del grande nord!

Qual è il posto più selvaggio che hai incontrato in Alaska?

Il Denali Park è sicuramente al primo posto per le pianure immense e la fauna, tutto circondato da montagne che creano un microclima veramente unico. Ma anche l’estremo nord, la costa dove si trova Barrow, piccolo villaggio con il nulla intorno: centinaia di chilometri da percorrere solo in idrovolante o in piccoli aerei lo dividono dalle zone abitate dell’Alaska. La sua vera particolarità è l’inverno con tre mesi di buio totale, non arriva mai il sole.

E in Italia c’è qualche luogo selvaggio che che ti dà buone vibrazioni?

Sicuramente le Foreste Casentinesi per i paesaggi e l’Abruzzo per i panorami e la fauna. Ho frequentato queste zone per dei corsi di fotografia con il mio amico Angelo Gandolfi, fotografo di Oasis, praticamente il mio maestro; mi sono inspirato a lungo a lui e ai suoi scatti, mi ha sempre motivato e soprattutto mi ha insegnato come muovermi nel lavoro del fotografo.

Raccontaci come hai iniziato a fare il fotografo.

Iniziò tutto con la rottura di una fotocamera compatta. Ero in Germania una decina di anni fa e il sistema anti vibrazione della piccola macchinetta si ruppe per via del freddo. Una volta tornato a casa un amico mi fece acquistare una reflex e da lì fu amore a prima vista per la fotografia. All’inizio mi dedicai a foto di paesaggi, volatili e rettili della mia zona, così cominciai a fare mostre e vendere foto.

Cosa ti spinge adesso?

Non faccio escursioni estreme, ma semplicemente cammino, nient’altro. Ed è questo che mi spinge sempre verso nuove spedizioni. Credo che “l’arrivo” non sia più importante del percorso, e per quanto possa andare lontano, per quanto le temperature siano estreme… tutto quello che faccio è fatto innanzitutto da singoli passi, niente di più.

A proposito del tuo lavoro in mezzo alla natura, scrivi: “Questa per me è la vita, è la mia roulette russa”. Cosa significa?

Nel mio lavoro non sai mai cosa può succedere, ci sono cosi tante variabili: temperature, foreste, orsi, lupi, laghi ghiacciati, e io ci sono sempre in mezzo e non so mai se qualcosa può andar male… Questa è la mia roulette russa.

Come ti senti in mezzo al nulla con la tua fotocamera in mano?

Continuamente contrastato dentro e fuori. Mi sento insignificante rispetto a tutta la natura che mi circonda, soprattutto in Alaska, li è tutto molto più grande! Ma comunque mi sento bene e in pace con me stesso, poi viene la fotografia.

L’ambiente condiziona le tue foto?

Non potrei mai immaginare di vivere lontano dai boschi, dagli animali e soprattutto dal grande nord, è solo li che mi sento veramente me stesso. Ed è proprio grazie a questo mio amore che cerco di scattare foto vere, senza tanta inutile ricercatezza.

Punti, scatti e stop?

Esatto, non uso Photoshop, preferisco impiegare ore per uno scatto buono piuttosto che scattare in un secondo e poi stare ore sul computer per modificarlo.

Qualche consiglio per chi inizia questo lavoro, o vuole trasformare la passione in lavoro?

Umiltà: ricordatevi sempre che non sarete mai “arrivati”. Anzi. Consiglio comunque di iniziare con le mostre in giro per qualsiasi tipo di locali, è una buona gavetta e si impara molto, si conosce gente interessante e anche qualche commento negativo fa sempre bene!

Che qualità servono per la fotografia naturalistica? Come devi muoverti?

Se mi lasciassi sempre “rapire” da tutto quello che ho intorno non farei sicuramente buoni scatti. C’è bisogno di continua concentrazione nelle impostazioni delle reflex: soprattutto quando ne hai più di una e vari obiettivi contemporaneamente, devi tenere costantemente un buon equilibrio fra tempo di esposizione, apertura di diaframma, bilanciamento del bianco – e questo è il minimo necessario! Quindi massima attenzione in tutte le situazioni.

Che parco obiettivi usi?

Solo due, per rimanere il più leggero possibile, un 100-400 per la fauna e un 24-105 per paesaggi, ritratti e reportage di ogni genere. Poi naturalmente una miriade di batterie, un cavalletto e un telecomando per gli scatti remoti.

Che altre imprese sogni?

Vorrei fotografare una cosa mai fotografata prima, cioè la vera fine di un ghiacciaio in mare, quello che non si può vedere neanche da pochi metri di distanza da questi “mostri”. Voglio fotografarli da sott’acqua, voglio vedere e fotografare che forma hanno e il loro primo contatto con il fondale e le pareti laterali della costa sommersa.



Quanto a impresa estrema non è male…

Il pericolo sono i crolli di grandi massi di centinaia di chili che si staccano dal ghiacciaio. Se succedesse con me lì sotto, non c’è da studiare certo il finale.

Foto: Emanuele Equitani

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