Nel 2015 si farà catapultare su un iceberg alla deriva, da qualche parte al largo della Groenlandia, e ci rimarrà in totale autonomia finché il ghiaccio non si sarà completamente sciolto: è solo l’ultima delle avventure di Alex Bellini, il ragazzo di montagna che ha attraversato i deserti a piedi, il Pacifico e l’Atlantico a remi e gli Stati Uniti di corsa, da Los Angeles a New York.
A 38 anni, dopo aver abbandonato gli studi in Scienze bancarie e un ragionevole posto di lavoro comodo e sicuro, di una cosa è certo: “Ognuno di noi potrebbe attraversare un oceano a remi. A due sole condizioni però: non smettere mai di crederci e avere una forte motivazione”. No, nessuno di noi, probabilmente, remerà mai da Genova al Brasile, ma non è nemmeno necessario: l’avventura è anche dietro casa, ed è proprio di questo che abbiamo parlato con Alex, di come anche le piccole avventure quotidiane ci cambiano la vita, del senso che troviamo nelle cose che facciamo, di ciò che siamo e di ciò che vogliamo diventare.
Alex, perché ci mettiamo in cammino?
Bella domanda! Credo che l’essenza profonda dell’avventura abbia a che fare con i bisogni. I bisogni generano squilibrio, ci inducono a muoverci: se siamo sul divano a guardare la tv e sentiamo la sete, ci alziamo per andare a bere. E così è nei confronti dell’avventura: alzarsi e partire è un modo per colmare un bisogno. Non camminiamo per esplorare nuovi territori, ma per riprendere contatto con noi stessi. Fateci caso: molta gente a 40 anni cambia la propria vita, comincia a fare sport, intraprende nuove attività. Secondo me questo accade perché l’attività fisica ti costringe ad analizzare te stesso, a ripensare a te stesso.
L’avventura è per forza di cose estrema?
No, non necessariamente, anche se c’è qualcosa che ha a che fare con l’estremo che devo ancora capire. L’uomo ha da sempre cercato di costruire attorno a sé delle certezze. Pensiamo al posto fisso, ai rapporti sociali stabili, alla sicurezza economica: è una tendenza naturale. Poi però vediamo che sempre più persone si trovano a voler avere a che fare con qualcosa di estremo: pensiamo a chi prova il paracadutismo, il bungee jumping, ma anche solo il canyoning o il rafting.
Cosa hanno in comune tutte queste cose?
Che ci fanno provare il senso e l’eventualità della caduta. Sono tutte situazioni in cui qualcosa sfugge al nostro controllo, e questo ci affascina. Ed è questa sensazione di disequilibrio che ci costringe a muoverci e a trovare un nuovo assetto, a ripensare a noi stessi, a crescere e migliorare come persone.
È la natura a ispirare le tue avventure?
Fai questa domanda a un ragazzo nato e cresciuto in Valtellina, dove potevo scegliere quale montagna scalare o quale sentiero percorrere semplicemente aprendo la porta di casa. La natura ha caratterizzato la mia vita fin da subito, e capisco che sia diverso per chi è nato in città e considera la natura il lusso del weekend. Per me la natura è strumento di conoscenza personale: il primo ambiente che ho esplorato è stato quello dei boschi dietro casa mia.
Cosa succedeva in quelle prime esplorazioni?
A 8 anni, tornato a casa da scuola, mi facevo disegnare le mappe dei sentieri dietro casa e con la borraccina da esploratore mi addentravo nel bosco: era affascinante capire come cambiava il modo di respirare, di pensare, di camminare. L’ambiente è il primo fattore che influenza le persone, e riprendere contatto con la natura, anche solo addentrandoci in un bosco, è già una piccola esperienza introspettiva.
Si può vivere un’avventura anche dietro casa?
Certo, assolutamente, ed è estremamente gratificante. Io lo faccio ogni giorno e ho scoperto che attraverso l’avventura dietro casa cominci a vedere ciò che ti circonda con occhi diversi, in modo non scontato. L’avventura è fare qualcosa che non hai mai fatto, o che non fai abitualmente, e ogni volta che ti cimenti con qualcosa di nuovo o inconsueto sviluppi la capacità trovare nuove risposte a vecchie domande e problemi. L’avventura dietro casa è economica, alla portata di tutti, la puoi vivere da solo, con gli amici, i figli, i colleghi e rende la vita molto più divertente e stimolante.
Dove comincia un’avventura?
Tutto parte da un sogno, da un’idea. Dal riconoscere che in tutte le cose che potresti fare ce n’è una che diventa la tua ragione di vita nel prossimo futuro. Questo ovviamente non basta, perché poi, grande o piccola che sia, un’avventura va pianificata: io cerco sempre di tornare a casa vivo, e di mettermi nelle condizioni ideali per vivere un’avventura che preveda il più possibile e nel modo migliore tutti i rischi che ne derivano.
E dove finisce?
Per quanto mi riguarda, finirla non è così importante. Per esempio: il giorno in cui ho messo piede a terra dopo aver attraversato l’Atlantico non mi ha reso un uomo migliore. Credo di esserlo diventato per il percorso che ho fatto, per tutto quello che ho messo in gioco per tendere al risultato. Finire un’avventura è un momento che può essere anche escluso, mentre penso invece che sia molto importante rivederla e ripensarla, per imparare, migliorare, crescere.
Quindi anche il fallimento può essere parte di un’avventura?
Sì, è un processo di apprendimento che può prevedere anche la rinuncia o il fallimento. Quando ho attraversato il Pacifico partendo da Lima in Perù, ho interrotto la navigazione a 65 miglia dalla costa di Sydney: dopo 18mila km mancava pochissimo, ma le condizioni meteo potevano mettere a repentaglio la mia vita. Il fallimento è parte di ogni processo di apprendimento, e penso anche che dobbiamo ripensare al significato e alla definizione di successo e insuccesso: è inutile continuare a ragionare con il vecchio paradigma economico, per me il successo è tutto ciò che porta la mia vita ad avere uno scatto in positivo, fossero anche la perdita di qualcosa di importante come il lavoro o una persona cara. Al momento li vedi come un fallimento, ma sono convinto che poi ti portano a fare uno scatto verso un miglioramento.
L’incertezza è sempre parte di un’avventura?
Sì. Se pensi di rispondere a ogni domanda o dubbio attraverso la pianificazione sei uno sprovveduto, perché c’è sempre un fattore di rischio che esula dalla tua immaginazione. In ogni avventura il momento che richiede la massima attenzione e il maggior impiego di tempo è proprio quello in cui ti poni le domande su ciò che sarà, e cerchi di rispondere per essere preparato al peggio. Poi però c’è sempre un certo livello di imponderabilità, ed è qui che entra in gioco la nostra capacità di gestire il cambiamento, accettarlo, non resistervi e capire come evolvono le cose. Come quando giochi a scacchi: puoi avere una strategia, poi però devi anche tener conto della mossa del tuo avversario per riformularla.
Dici di provare spesso paura: perché?
Perché la paura è lo strumento naturale del nostro organismo che serve per preservarci dalle minacce che potrebbero annientarci. Io benedico la paura perché è grazie a essa se ogni volta posso tornare a casa. E comincerò ad avere paura il giorno in cui non proverò più paura e non ci saranno più limiti davanti a me. La paura però non deve diventare un pretesto per non fare nulla. Anzi, la paura come la fatica misurano il grado di impegno che mettiamo nelle cose.
Quando funziona meglio la paura?
Quando sono seduto a tavola ovviamente non ho paura, perché è una situazione di comfort. Però noi cresciamo e miglioriamo come persone quando usciamo dai nostri ambienti circoscritti e sicuri e ci troviamo in situazioni che mettono in disequilibrio e a repentaglio le nostre credenze e i nostri valori. È in quel momento tra il possibile e l’impossibile che iniziamo a svilupparci e fortificarci come persone: la paura è la misura del fatto che stiamo facendo qualcosa che ci rende migliori. Poi sta a noi decidere il limite delle nostre paure e fino a che punto accettare il rischio, perché il fine ultimo è sempre quello di trovare la situazione per atterrare in piedi.
Quali limiti cerchi nelle tue imprese?
Non credo sia una questione di ricerca dei limiti, ma di bisogno di sentirci competenti nel fare qualcosa. Non è nella nostra essenza fare qualcosa che non sappiamo fare, proprio perché la natura tende a preservare se stessa. Quando però decidiamo di intraprendere qualcosa di nuovo, significa che a livello inconscio, corticale, siamo convinti di essere in grado di farla, ed è questa leva a spingerci verso il cambiamento: dimostrare a se stessi di saper fare qualcosa è un piccolo brivido che fortifica noi stessi e le persone che ci circondano.
Qual è il senso più importante per un avventuriero?
Credo la vista, almeno nella mia esperienza. Ci rapportiamo con il mondo attraverso ciò che vediamo ed è sempre quello che vediamo che detta la direzione che prendiamo. Però quando navighi nel mare per molto tempo sviluppi tantissimo l’olfatto e, dopo mesi in acqua, quando ti avvicini alla terra ne senti l’odore prima ancora di vederla. Quando mi stavo avvicinando all’Australia sentivo odore di pneumatici, di benzina, di terra, che poi è l’odore della vita di tutti i giorni.
Che rapporto hai con gli elementi naturali?
Mi piace mescolarmi a essi, tornare a contatto con le nostre sensazioni. E quando riesco a prestare attenzione alla sensazione di una parete ruvida o dell’acqua che scorre sul corpo sento qualcosa di molto potente che torna a dare valore al qui e ora. Se dovessi pagare per qualcosa ora, in questo momento, non vorrei altro che toccare con la mano una parete ruvida, o sentire l’aria fredda che entra nel naso. Ma non dimentichiamo che alla fine l’uomo esplora, naviga e affronta gli elementi con la finalità ultima di esplorare il quinto elemento, il meno esplorato, che è se stesso, l’essere umano. La natura è teatro dell’esplorazione di noi stessi. Pensateci bene: che senso ha attraversare l’oceano a remi? Non c’è nessun senso in sé, se non quando diventa strumento per conoscere se stessi.
©RIPRODUZIONE RISERVATA